Di nuovo in campagna elettorale, l’auspicio è che i politici israeliani abbassino i toni inutilmente polemici

Il governo Bennett-Lapid ha dimostrato che rivali ideologici di sinistra, destra, religiosi, laici e arabi possono collaborare per il bene comune: uno spirito che non deve svanire con il ritorno alle urne

Editoriale del Jerusalem Post

Da sinistra a destra: il ministro della difesa Benny Gantz, il ministro degli esteri Yair Lapid e il primo ministro Naftali Bennett durante una seduta alla Knesset

Salvo l’improbabile eventualità che entro pochi giorni 61 parlamentari della Knesset votino una sfiducia costruttiva a sostegno di Benjamin Netanyahu affinché prenda il posto di Naftali Bennett con una nuova coalizione di governo, Israele si sta rapidamente incamminando verso elezioni anticipate per la quinta volta in 3 anni e mezzo.

Si tratterebbe delle 25esime elezioni per la Knesset nei 74 anni da che esiste lo stato d’Israele. Non è poco. Ma ciò che è ancora più significativo è che 11 di queste elezioni si sono tenute negli ultimi 26 anni a partire dal 1996. In confronto, nei 48 anni precedenti si erano tenute “solo” 13 elezioni politiche. In altre parole, se è vero che Israele non è mai stata un’oasi di stabilità politica, gli ultimi 26 anni, e soprattutto gli ultimi tre anni e mezzo, sono stati particolarmente instabili.

Secondo l’Israel Democracy Institute, se effettivamente si terranno elezioni anticipate il prossimo autunno (tra fine ottobre e primi di novembre), vorrà dire che dal 1996 gli israeliani saranno andati ai seggi in media ogni 2,4 anni, posizionandosi al primo posto per frequenza elettorale tra le 21 democrazie parlamentari prese in esame, comprese nazioni famose per la loro cronica instabilità politica come Italia, Grecia, Spagna e Giappone.

Tralasciando per un momento l’aspetto più ovvio – e cioè che è difficile in tali circostanze che  un paese venga ben governato con un buon grado di coerenza politica – c’è un’altra conseguenza ancora più negativa di questi continui cambiamenti di governo e appelli alle urne: essi seminano profonde divisioni.

Le campagne elettorali, per dirla con un eufemismo, non tirano fuori il meglio delle persone. I candidati non se la giocano tanto su ciò che hanno da offrire, quanto e molto di più sul perché votare l’altra parte significherebbe un disastro. In tutto il mondo le campagne elettorali acuiscono le divisioni, mettendo in contrapposizione un settore della popolazione contro l’altro. Le campagne elettorali si nutrono di discordie. In alcuni paesi come gli Stati Uniti, dove le elezioni presidenziali sono distanziate di quattro anni l’una dall’altra, c’è tutto il tempo – o almeno c’era, prima di Trump – perché la nazione si riprenda da una campagna presidenziale divisiva prima di passare alla successiva.

Numero medio di anni fra un’elezione e l’altra in vari paesi dal 1996 a oggi (clicca per ingrandire)

Non qui. In Israele, il paese ha appena iniziato a riaversi dai contrasti portati a galla dall’ultima elezione e deve di nuovo affrontarne un’altra. Se fa testo la storia recente, nella prossima campagna elettorale la sinistra sarà dipinta come disfattisti senza fegato e la destra come fascisti in pectore. Gli ultra-ortodossi saranno descritti come parassiti antisociali, i sionisti religiosi come messianisti stralunati e gli arabi come fiancheggiatori del terrorismo. Sono tutte iperboli esagerate, ma l’iperbole è moneta corrente nelle campagne elettorali. Non basta dire quanto uno sia bravo e capace, bisogna soprattutto martellare su quanto sia cattivo, orrendo e nocivo l’avversario. Ma quando si sente ripetere più e più volte quanto sia cattivo, orrendo e nocivo l’avversario, ad esempio durante la quinta campagna elettorale in tre anni e mezzo, è facile iniziare a crederci. E questo non è bene né salutare per il paese. Se si enfatizzano abbastanza spesso le discordie mettendole continuamente sotto i riflettori, esse non faranno che crescere e aumentare.

Questo è il motivo per cui, nel momento in cui i partiti intraprendono l’ennesima campagna elettorale, li scongiuriamo di attenuare la retorica polemica e di tenere sempre a mente che, dal giorno dopo lo spoglio dei voti, qui c’è una nazione da governare per il bene di tutti: una nazione estremamente diversificata che ha l’assoluta necessità di vivere e lavorare unita. Non si aizzi un settore contro l’altro, durante la campagna elettorale. Non ci si abbandoni a demonizzazione e delegittimazione, aspettandosi che poi tutti possano perdonare e dimenticare e lasciarsi alle spalle tutto quanto una volta passate le elezioni.

Una delle caratteristiche eccezionali del governo Bennett-Lapid, oggi avviato verso l’uscita, è che ha cercato di contrastare questa tendenza. Ha cercato di dimostrare che i rivali ideologici – sinistra, destra, religiosi, laici, arabi – non devono essere per forza nemici, ma possono concretamente collaborare per il bene comune. Questo governo ha rotto gli schemi della formazione delle coalizioni e ne ha creato uno nuovo. Non è durato a lungo, solo un anno. Ma ha creato un nuovo paradigma. Ha mostrato che sono possibili altre modalità per gestire il paese, inclusa quella di farlo mettendo a lavorare insieme persone che ideologicamente hanno ben poco in comune e le cui visioni del mondo sono distanti fra loro.

Ci auguriamo non solo che questo spirito non svanisca con la caduta del governo, ma che l’idea che il proprio rivale politico non sia il proprio nemico si faccia in qualche modo strada nella imminente campagna elettorale.

(Da: Jerusalem Post, 21.6.22)