“Dichiarazioni pubbliche senza conoscere i fatti non fanno che perpetuare menzogne e intransigenza”

Lettera aperta a Richard Gere, l’ultimo vip portato in visita guidata a Hebron da attivisti anti-israeliani

Di Ben-Dror Yemini

Ben-Dror Yemini, autore di questo articolo

Caro Richard Gere, lei ha recentemente visitato Hebron accompagnato da attivisti di “Breaking the Silence” i quali probabilmente le hanno detto quello che dicono a tanti altri diplomatici, giornalisti, parlamentari e ospiti occasionali sui crimini di Israele, sui poveri abitanti palestinesi di Hebron e altro ancora. La sua unica reazione è stata affermare che “è esattamente come il vecchio Sud in America, quando i neri sapevano bene dove non potevano andare se non volevano avere la testa rotta o essere linciati”.

Lasci che le dica innanzitutto che io non sono un sostenitore dell’insediamento ebraico a Hebron o degli insediamenti in generale. Tutt’altro. Sono a favore di una soluzione dignitosa che dia ai palestinesi benessere, sviluppo, sovranità e indipendenza. Se solo anche loro la volessero. Se solo si battessero per se stessi, anziché contro l’esistenza di Israele.

Tuttavia, se lei vuole contribuire in qualche modo a una riconciliazione tra israeliani e palestinesi, vi sono alcuni fatti che dovrebbe conoscere.

Hebron è la città più santa e più importante per la tradizione ebraica, seconda solo a Gerusalemme. Ebrei hanno continuato a vivere a Hebron anche dopo l’occupazione araba del VII secolo. Vi vivevano con lo status di dhimmi, cittadini inferiori, come era consuetudine un po’ dappertutto sotto dominio musulmano. Nel XVI secolo agli ebrei era già vietato l’ingresso alla Grotta dei Patriarchi (potevano pregare avvicinandosi solo fino al settimo gradino della scala d’accesso esterna). Vi furono violenti tumulti contro gli ebrei nel 1517 e nel 1834, epoche in cui non esisteva nessuna occupazione, non c’era il movimento sionista e non c’era Israele. Il pogrom maggiore ebbe luogo nel 1929: cinquantanove ebrei vennero trucidati da una folla di musulmani infuriati, mentre pochi altri musulmani, autentici Giusti tra le Nazioni, offrirono rifugio ad alcuni ebrei. Dopo quel pogrom, gli ebrei furono costretti ad andarsene e i musulmani si impadronirono del quartiere ebraico e delle case degli ebrei.

L’attore americano Richard Gere in visita a Via al-Shuhada, Hebron

Diversi anni dopo la guerra dei sei giorni del 1967 (che portò Hebron sotto controllo israeliano), venne ricreato l’insediamento ebraico nella zona in cui si trovava in precedenza il quartiere ebraico. La cosa suscitò un’aspra polemica nella società israeliana, una controversia che da allora non è mai cessata. Nel quadro dell’accordo di Oslo, nel 1997 venne raggiunta un’intesa in base alla quale i palestinesi ricevettero piena ed esclusiva responsabilità sull’80% di Hebron (zona H1), mentre agli ebrei restava il controllo sul 20% (zona H2). In pratica, gli ebrei non sono ammessi nella zona H1 e nella maggior parte delle aree della zona H2 dove vivono i palestinesi. C’è poi una strada, nella zona H2, Via al-Shuhada, che collega due quartieri ebraici e che ha goduto di enorme pubblicità internazionale a causa delle restrizioni al transito dei palestinesi che non vivono nella strada. Non c’è alcun bisogno di giustificare ogni iniziativa israeliana in quella zona, ma bisogna almeno conoscere il quadro complessivo e reale: agli ebrei, e solo agli ebrei, è interdetto il 97% della città di Hebron (tutta la zona H1 e la maggior parte della zona H2); le restrizioni per i palestinesi si applicano essenzialmente a una sola strada, che viene visitata da decine o centinaia di persone ogni settimana,affinché si possa spacciare loro la mistificazione dell’”apartheid” israeliano.

Mi permetto di supporre che gli attivisti di Breaking the Silence non le hanno detto che i palestinesi non corrono nessun pericolo di linciaggio. Un ebreo che entra accidentalmente in territorio palestinese, invece, è immediatamente minacciato di linciaggio (tanto che deve essere subito portato in salvo dalle forze israeliane e talvolta dalla stessa polizia dell’Autorità Palestinese). Né le avranno detto che le misure di sicurezza sono state adottate perché per la maggior parte i palestinesi di Hebron sostengono Hamas, un’organizzazione jihadista e antisemita che propugna l’annientamento degli ebrei. E non le avranno neanche detto che la città di Hebron è attiva e piena di vita a prescindere dalla minuscola parte, solo il 3%, in cui vivono degli ebrei. E non le avranno detto che non vi è stata nessuna estorsione di proprietà palestinesi, e che i “coloni” detengono solo una piccola parte delle proprietà ebraiche derubate agli ebrei nel 1929.

Le zone H1 e H2 di Hebron

L’unica cosa da discutere, semmai, è la logica di (ri)creare un insediamento ebraico nel cuore di una popolazione araba. Personalmente sono contrario: sono convinto che, nell’ambito di un accordo globale, bisognerà condonare molto del passato, come è avvenuto coi grandi mutamenti demografici in Europa. Ma questo non ci esime dal conoscere i fatti.

Hebron, poi, è solo una parte della storia. I palestinesi hanno un’autonomia, un parlamento eletto, un governo, un presidente e anche rappresentanti diplomatici in tutto il mondo. Se il controllo israeliano perdura è perché i palestinesi stessi hanno ripetutamente respinto qualsiasi proposta concreta di accordo. All’inizio del 2001 hanno rifiutato la proposta dell’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton per uno stato sul 100% della striscia di Gaza e sul 96% della Cisgiordania, compresa una divisione di Gerusalemme. Nel 2008 hanno respinto una proposta analoga dell’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert. Nel marzo 2014 ancora una volta hanno rifiutato una proposta del segretario di stato americano John Kerry e del presidente Barack Obama. Suppongo che non abbia sentito niente di tutto questo dagli attivisti di Breaking the Silence. Loro non le mostreranno mai il quadro reale, né storico né attuale. Non le parleranno mai del terrorismo. Non le diranno mai del rigetto palestinese di ogni accordo. Possono spacciarle bugie, mezze verità e distorsioni, e possono farlo liberamente anche a Hebron, perché Israele è una democrazia. Non sono persone cattive. Agiscono in buona fede. Ma sono ciechi. Soprattutto, si sbagliano e inducono in errore.

Che cosa dovrebbe fare Israele? Sgomberare la zona senza un accordo, in modo che ciò che è accaduto nella striscia di Gaza accada di nuovo anche a Hebron e in tutta la Cisgiordania? Il risultato immediato e certo sarebbe l’istituzione di un’entità islamista o di un ramo dell’ISIS che causerebbero maggiore terrorismo, maggior dolore e sofferenze, maggiori distruzioni anzitutto ai palestinesi stessi. Questo è quello che è successo nella striscia di Gaza e che sta accadendo in Libia, in Nigeria, nel Sinai egiziano, in Siria, in Iraq, in Afghanistan. E’ quello che succede in ogni luogo che cade sotto il controllo dell’islamismo estremista.

Tutto ciò non significa che la situazione attuale debba continuare, non giustifica la continuazione dell’opera di insediamento, non significa che una piccola parte degli abitanti di Hebron debba talvolta patire inutilmente. Ma non è apartheid. L’apartheid non c’entra niente. Ciò che le è stato mostrato a Hebron non è altro che un’esibizione che fa parte di un’opera di propaganda anti-israeliana che non avvicina affatto la pace né i diritti umani, e contribuisce solo a perpetuare il conflitto.

I diritti umani sono una questione importante. I palestinesi hanno diritto al benessere, all’autogoverno e allo sviluppo. Il problema è che la loro dirigenza non vuole uno stato a fianco di Israele, ma uno stato al posto di Israele. Il problema è che la loro dirigenza preferisce l’incessante istigazione piuttosto che educare alla riconciliazione, al riconoscimento reciproco e al compromesso. Le è venuto in mente di dire loro qualcosa riguardo al loro incessante indottrinamento all’odio e alla violenza? Riguardo al razzismo? Riguardo all’antisemitismo? Riguardo a intransigenza e rifiuto? Forse che loro sono esenti dalle critiche?

La sua attività e l’attività di altri come lei a favore dei diritti umani è importante. Ma prima di prendere una posizione è necessario conoscere i fatti. Giacché le cose che lei ha detto non aiutano a promuovere né la pace né la condizione dei palestinesi. Non fanno altro che perpetuare le menzogne e il rifiuto. Dunque, la prossima volta che decide di prendere pubblicamente posizione, prima si studi un po’ la materia. Solo allora, signor Gere, potrà offrire utili consigli.

(Da: YnetNews, 31.03.17)