Discorso di Pence alla Knesset: cosa c’era e cosa non c’era

Ciò che ha reso del tutto inconsueto il discorso di Pence è il fatto che non conteneva la solita frase introdotta da "ma"

Di Herb Keinon

Herb Keinon, autore di questo articolo

Ciò che ha colpito di più, nel discorso fatto dal vicepresidente Usa Mike Pence lunedì alla Knesset, è che “l’altra scarpa” non è mai caduta. L’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama, il suo vice Joe Biden e i loro segretari di stato Hillary Clinton e John Kerry hanno tutti tenuto numerosi discorsi di alto profilo in Israele e su Israele, durante gli anni del loro mandato. Come Pence, tutti – ognuno a modo proprio – hanno elogiato il popolo ebraico per la sua resilienza e Israele per aver fatto fiorire il deserto. Ascoltandoli, tuttavia, si sapeva sempre che a un certo punto sarebbe arrivata la frase introdotta da un “ma”. Ci si aspettava come un fatto scontato che da qualche parte, nel mezzo del loro discorso, a partire da una frase sull’importanza che i “buoni amici” siano sinceri e pronti a dirsi la verità, il miele si sarebbe trasformato in aceto. Con la precedente amministrazione, si poteva star certi che a un certo punto del bel discorso l’altra scarpa sarebbe caduta, e sarebbe iniziata una lezione su quanto la situazione attuale è insostenibile, su come Israele non possa rimanere sia ebraico che democratico, su come gli insediamenti siano il vero, enorme ostacolo alla pace. Ciò che ha reso del tutto inconsueto il discorso di Pence è semplicemente il fatto che non è mai arrivata la frase del “ma”.

Detto questo, vale la pena sottolineare alcuni elementi che hanno caratterizzato il discorso del vicepresidente americano per la loro presenza o per la loro assenza.

Cosa c’era nel discorso

22 gennaio 2018. Il vicepresidente Usa Mike Pence parla alla Knesset, il parlamento israeliano, a Gerusalemme

Shehecheyanu. Obama, quando venne in Israele in visita ufficiale nel 2013, strappò applausi infarcendo i suoi quattro discorsi pubblici di parole ebraiche e riferimenti culturali moderni: Shalom, Tov lihiyot shuv b’Aretz (è bello essere di nuovo in Israele), e Eretz Nehederet, titolo di un popolare show satirico televisivo. Anche Pence ha usato un po’ di ebraico, ma ha usato frasi tratte dalla tradizione sacra. Mentre Israele si appresta a celebrare il suo 70esimo anniversario, Pence ha fatto ricorso alla tradizionale benedizione ebraica shehecheyanu che viene recitata nelle occasioni particolarmente fauste. Shehecheyanu, v’kiyimanu, v’higiyanu la’zman ha’zeh ha detto, usando le parole con cui si ringrazia il Signore per averci “concesso la vita, averci sostenuto e averci permesso di raggiungere questa occasione”.

Gerusalemme, la capitale di Israele. Suscitando forse il più lungo applauso al suo discorso, Pence ha affermato qualcosa che nessun precedente rappresentante degli Stati Uniti avrebbe mai dichiarato pubblicamente: “Gerusalemme è la capitale d’Israele”. Non solo. La trascrizione ufficiale del discorso pubblicata dalla Casa Bianca indica come luogo in cui è stato tenuto “la Knesset, Gerusalemme, Israele”. Sebbene ciò possa sembrare insignificante, si consideri che quando Obama parlò ai funerali di Shimon Peres, nel 2016, la Casa Bianca si precipitò a cancellare e sostituire la dicitura originaria secondo cui il discorso era stato tenuto sul “Monte Herzl, Gerusalemme, Israele” con la versione emendata “Monte Herzl, Gerusalemme”. (Per chi non ha dimestichezza con il luogo, vale la pena ricordare che sia il Monte Herzl che la Knesset si trovano nella parte ovest di Gerusalemme, quella che è sempre stata israeliana.)

L’Iran è malvagio. Ispirato dal suo interiore Ronald Reagan che notoriamente definì l’Unione Sovietica “impero del male”, Pence ha messo fine all’attitudine della precedente amministrazione di muoversi in punta di piedi circa il tipo di regime che domina effettivamente in Iran. E’ scomparso dal suo lessico l’obamiano “tutti noi abbiamo interesse a risolvere pacificamente questo problema: una diplomazia forte e di saldi principi è il modo migliore per garantire che il governo iraniano rinunci alle armi nucleari”. Al suo posto, Pence ha detto: “Come il mondo ha visto ancora una volta, il brutale regime iraniano non è che una spietata dittatura che cerca di soggiogare i suoi cittadini e negare loro i diritti fondamentali. La storia dimostra che chi sottomette la propria popolazione raramente si ferma a questo: infatti vediamo sempre più che l’Iran cerca di dominare il più ampio mondo arabo”. E rivolgendosi al popolo iraniano, ha aggiunto: “Arriverà il giorno in cui sarete liberi dal perfido regime che soffoca i vostri sogni e sotterra le vostre speranze.

Il punto di vista di Netanyahu. In certi passaggi è sembrato che Pence citasse direttamente Netanyahu. Le seguenti righe del vicepresidente americano si sono sentite, con lievi variazioni, in diverse occasioni nei discorsi di Netanyahu: “Esortiamo con forza la dirigenza palestinese a tornare al tavolo negoziale”; “la pace può arrivare solo attraverso il dialogo”; “qualsiasi accordo di pace deve garantire la capacità d’Israele di difendersi da solo”; “una pace giusta e duratura può fondarsi solo sui fatti veri”.

23 gennaio 2018. Il presidente israeliano Reuven Rivlin riceve nella sua residenza ufficiale a Gerusalemme il vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence

Cosa non c’era nel discorso

Insediamenti. Il vicepresidente degli Stati Uniti ha tenuto il discorso senza pronunciare una sola volta la parola “insediamenti”. In confronto agli anni di Obama, un fatto quasi rivoluzionario. Tanto per ricordare, Kerry dedicò gran parte del suo ultimo discorso sul Medio Oriente, del dicembre 2016, ad attaccare Israele sulla questione degli insediamenti.

La cooperazione sulla sicurezza non è mai stata migliore. Durante gli anni di Obama si sapeva che in ogni discorso americano d’alto profilo sarebbe arrivata una frase sulla stretta collaborazione di sicurezza fra i due paesi. “Sono orgoglioso che le relazioni di sicurezza tra Stati Uniti e Israele non sono mai state così forti – disse Obama nel suo discorso a Gerusalemme del 2013 – Più esercitazioni congiunte tra i nostri militari e più scambi che mai tra i nostri rappresentanti politici, militari e dell’intelligence: il più grande programma fatto fino ad oggi per aiutarvi a preservare il vostro vantaggio militare qualitativo. Questi sono fatti”. Obama e i suoi portavoce sottolineavano continuamente questi fatti per mettere in ombra un altro fatto: che i rapporti tra l’amministrazione Obama e il governo Netanyahu erano molto tesi in altri campi, dall’Iran ai palestinesi. Pence non ha avuto bisogno di evidenziare la cooperazione sulla sicurezza perché in questo momento il rapporto fra i due paesi è molto stretto sotto tutti gli aspetti, e non solo quello della sicurezza.

L’isolamento di Israele. Pence non ha mai parlato dell’isolamento di Israele, cosa che invece Obama, Biden e Kerry facevano spesso e volentieri come forma di pressione per spingere Israele a fare concessioni. Ad esempio, nel suo discorso a Gerusalemme Obama disse: “Data la frustrazione nella comunità internazionale, Israele deve adoperarsi per invertire la marea dell’isolamento”. Obama e Kerry prendevano l’isolamento come un dato di fatto e la loro ovvia conclusione era che solo ulteriori concessioni da parte di Israele vi avrebbero posto rimedio. Nel discorso di Pence non c’è traccia di questo sillogismo: né dell’isolamento, né dell’idea che dipenda solo e soltanto da Israele.

Abu Mazen è il partner. Pence non ha mai detto nemmeno una volta che l’Autorità Palestinese o il suo presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) sono l’interlocutore, anzi, forse l’ultimo interlocutore, e che Israele deve rendersene conto e non sprecare quella che potrebbe essere l’ultima opportunità di trattare con un “partner” votato alla pace. Si ascolti Obama nel 2013: “Penso che abbiate un autentico interlocutore nel presidente Abu Mazen”. Pence non ha detto nulla del genere: il che non sorprende, dato che l’Autorità Palestinese guidata da Abu Mazen ha boicottato la stessa visita di Pence e ha proclamato che gli Stati Uniti sono fuori dal processo di pace.

(Da: Jerusalem Post, 22.1.18)