Disinnescare il conflitto

Gli stati arabi potrebbero e dovrebbero fare molto di più

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_1569Se c’è una cosa su cui tutte le fazioni palestinesi sono d’accordo è che i palestinesi non dovrebbero uccidersi fra di loro, bensì uccidere gli israeliani. Come ebbe a dire lo stesso presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) durante un comizio a Ramallah lo scorso 11 gennaio, “noi non cederemo sui nostri principi e abbiamo chiaramente affermato che i fucili devono essere puntati contro l’occupante”. Nel caso non fosse stato abbastanza chiaro, Abu Mazen ha aggiunto: “Abbiamo il legittimo diritto di puntare le nostre armi contro gli occupanti israeliani. È proibito usarle contro altri palestinesi”. Lunedì a Eilat Abu Mazen ha avuto ciò che voleva.
Un portavoce di Fatah ha condannato l’attentato suicida perpetrato in una panetteria di Eilat che ha causato la morte di tre civili israeliani. Ma terroristi affiliati a Fatah hanno invece rivendicato l’attentato, insieme ad altri gruppi palestinesi. In effetti, un comunicato di sostegno all’attentato si è potuto leggere anche sul sito in arabo delle Brigate Martiri di al-Aqsa (Fatah), accanto a un ritratto di Yasser Arafat.
L’attentato a Eilat è arrivato quattro giorni dopo che Abu Mazen e il ministro degli esteri israeliani Tzipi Livni avevano partecipato allo stesso panel durante il World Economic Forum di Davos, e poco dopo che Israele aveva trasferito, verosimilmente nelle mani di Abu Mazen, 100 milioni di dollari in rimesse fiscali palestinesi riscosse da Israele.
Sebbene Abu Mazen abbia ripetutamente invocato la politica di “un solo fucile”, secondo la quale tutte le milizie armate palestinesi dovrebbero essere smobilitate ed entrare a far parte di un’unica forza di sicurezza, finora non è riuscito a imporre questa politica nemmeno alle Brigate al-Aqsa, l’ala terroristica del suo stesso movimento Fatah. Inoltre è risaputo che molti membri di queste Brigate di Fatah portano anche l’uniforme delle forze di sicurezza controllate da Abu Mazen, e sono stipendiati dall’Autorità Palestinese.
Ma non è solo sulla questione del terrorismo che la distinzione fra Fatah e Hamas è, per dirla con un eufemismo, un po’ vaga. In quello stesso comizio a Ramallah, ad esempio, Abu Mazen proclamò: “La questione dei profughi non è negoziabile. E non cederemo un solo centimetro di terra a Gerusalemme. Consideriamo illegali tutti gli insediamenti e rifiutiamo qualunque tentativo di reinsediare i profughi in altri paesi”. Sarà anche “moderazione”, ma certo di un genere non compatibile con la soluzione “due stati-due popoli”.
Nel contesto dell’attentato a Eilat e della crescente violenza intra-palestinese, la politica d’Israele e di altri paesi di fornire ad Abu Mazen fondi e anche armi, nella speranza di incoraggiare la “moderazione”, ha necessita di un attento riesame. Vi sono modi migliori per promuovere una moderazione fra i palestinesi che sia autentica, e non solo relativa.
Vediamo che per la prima volta l’Arabia Saudita ha invitato tutte le fazioni palestinesi a tenere colloqui per la cessazione delle lotte intestine. Il che quadra con le tesi che intravedono una oggettiva convergenza di interessi fra stati arabi, Israele e Stati Uniti, tutti preoccupati per la minaccia iraniana. I sauditi, in questa prospettiva, hanno forte interesse a raffreddare i conflitti in Iraq, in Libano e nelle zone palestinesi perché distolgono gli Stati Uniti, che sono la guida del lo duello fra comunità internazionale e Iran.
Che sauditi e altri stati arabi siano preoccupati per l’Iran non è una teoria ma un dato di fatto. Così come è innegabile che, se la situazione palestinese, libanese e irachena migliorasse anziché deteriorarsi, gli Stati Uniti si troverebbero in una posizione migliore per concentrarsi sullo sforzo di fermare il programma nucleare iraniano e il sostegno di Teheran al terrorismo.
È chiaro, tuttavia, che gli stati arabi potrebbero e dovrebbero fare molto di più che ospitare incontri per cercare di invertire la corrente. Dopotutto che vantaggio potrebbe venire da una riconciliazione fra fazioni palestinesi se tutto ciò su cui possono concordare è di attaccare Israele e perseguire la strategia di annichilire lo stato ebraico attraverso il cosiddetto “diritto al ritorno”?
Ciò che occorre, dunque, è che gli stati arabi allontanino tutte le fazioni palestinesi dalla violenza e dalle posizioni estremiste che sono incompatibili con la soluzione “due stati”. Ciò significa dire apertamente che i palestinesi potranno “tornare” solo in uno stato palestinese, e non dentro Israele. E significa avviare contatti ufficiali fra leader arabi e israeliani, in particolare nelle rispettive capitali.
Gli stati arabi dicono di volere la pace. In privato dicono di essere molto, molto preoccupati per l’Iran. È tempo che agiscano concretamente su entrambi i fronti, adoperandosi in prima persona per disinnescare la campagna iraniana volta a incendiare l’intera regione.

(Da: Jerusalem Post, 30.01.07)

Nella foto in alto: Agente di polizia israeliano sulla scena dell’attentato palestinese di lunedì in una panetteria di Eilat