Dopo Saddam

La principale fonte di instabilità in Iraq traspare in un fatto che è già scomparso della pubblica consapevolezza

image_1532Difficile parlare di giustizia nel caso dell’esecuzione di Saddam Hussein. Non perché il processo sia stato irregolare o la punizione troppo severa. Al contrario, come è possibile equiparare una detenzione civile, seguita da una morte rapida e da una sepoltura con nome e cognome, con il destino che quest’uomo aveva imposto a decine di migliaia delle sue vittime?
Il processo a Saddam è stato molto criticato e lo stesso avviene ora per la sua veloce esecuzione. Alcuni, come il Vaticano, hanno definito “tragica” l’esecuzione di Saddam; il parlamentare arabo israeliano Ahmed Tibi l’ha definita un “atto di sadismo”.
Noi non sappiamo se c’era un modo migliore per organizzare il processo a Saddam o per gestire la sua esecuzione. A prima vista, il processo è sembrato garantire all’accusato ampie opportunità di difesa. È vero che il processo, e non solo il suo risultato, è importante per valutare un sistema giudiziario. Tuttavia, da un punto di vista morale, è difficile immaginare un processo corretto che giungesse a un qualunque altro verdetto.
Quello che possiamo fare ora è sperare che i seguaci di Saddam abbandonino qualunque precedente sogno di ritorno al potere, e che ciò contribuisca agli sforzi volti a migliorare le condizioni di sicurezza in Iraq.
Speranza, tuttavia, piuttosto esile. Chiaramente molto del terrorismo in Iraq è stato motivato da aspettative diverse da quella di restaurare il regime di Saddam. In realtà, la principale fonte, oggi, di instabilità in Iraq si può intravedere in un altro fatto della scorsa settimana, che è già scivolato via della pubblica consapevolezza.
Venerdì scorso il governo iracheno ha deciso di espellere due alti agenti iraniani che erano stati catturati dalle forze americane. Secondo il Washington Post, “uno dei due comandanti, indicato dagli ufficiali americani semplicemente come Chizari, era il terzo ufficiale più alto in grado delle Brigate Al-Quds delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, vale a dire l’unità più attiva nell’aiutare, armare e addestrare gruppi paramilitari al di fuori dell’Iran, fra cui i libanesi Hezbollah e la palestinese Jihad Islamica. L’altro comandante è stato descritto come altrettanto significativo nell’ambito dell’aiuto iraniano a paramilitari stranieri, anche se di grado non così elevato. Ufficiali della difesa americana a conoscenza dei fatti – continua l’articolo – dicono che gli iraniani catturati erano in possesso di liste dettagliate di armi, documenti riguardanti l’invio di armamenti in Iraq, organigrammi, documentazione telefonica, mappe e altro materiale sensibile di intelligence. Gli ufficiali americani sono particolarmente preoccupati per il fatto che gli iraniani erano in possesso di informazioni circa l’importazione in Iraq di moderni ordigni esplosivi con un aspetto particolare: armi che sono state usate come mine stradali contro veicoli blindati delle forze militari Usa… Da tempo ufficiali Usa si dicevano convinti che l’Iran fosse responsabile dell’invio in Iraq di tali armi, insieme ad altre come sofisticati fucili di precisione, come aiuto agli insorti e alle milizie”.
Se tutto questo agli israeliani suona famigliare, non è per caso. La scorsa estate abbiamo combattuto una guerra contro Hezbollah che sostanzialmente – in termini di addestramento, finanziamenti e armamenti – è una divisione iraniana di stanza in Libano. Ed ora ufficiali della sicurezza accusano Hezbollah di versare migliaia di dollari ai palestinesi per ogni missile Qassam lanciato sui civili israeliani, e cifre più elevate quando quei missili uccidono degli israeliani.
La lezione è chiara. L’Iran sostiene le milizie terroristiche in Iraq, in Libano, a Gaza e altrove. Questa attività ha lo scopo sia di promuovere direttamente gli obiettivi iraniani – come il fallimento dell’esperimento di democrazia in Iraq e di ogni possibile pace con Israele – sia di intimidire l’occidente spingendolo ad abbandonare i suoi svogliati sforzi per imporre sanzioni a Teheran.
Come fece Adolf Hitler negli anni ’30, il regime iraniano sta seguendo la strategia chiara e precisa di mettere alla prova la risolutezza delle nazioni libere. Teheran continuerà a inviare segnali, da una parte per illudere che una concessione o una negoziazione in più sia quella sufficiente ad indurlo a più miti consigli, e dall’altra per minacciare che qualunque forma di opposizione alle sue politiche innescherebbe un’escalation aggressiva.
Invece, anche qui come nel caso di Hitler, l’accondiscendenza non farà che condurre ad ulteriori aggressioni e, infine, alla guerra.

(Da: Jerusalem Post, 1.1.07)

Nella foto in alto: Manifestazioni di lutto palestinesi per Saddam Hussein domenica a Hebron (Cisgiordania)