Dove sbaglia la sinistra pacifista israeliana

Bisogna porre fine all’occupazione per patriottismo, non per odio verso Israele

di Gadi Taub

image_2661Come al solito la sinistra pacifista israeliana ha perso un’altra occasione di autoanalisi. La sinistra pacifista sembra avere il compito di fare da coscienza critica di tutti noi, salvo poi non esserlo mai di se stessa: evidentemente la coscienza critica serve solo per giudicare gli altri, mai per essere giudicati.
Peccato. Perché il risultato è che la sinistra pacifista non impara granché dai suoi stessi successi e insuccessi. Da una parte, infatti, può vantare grandi successi: la sua posizione politica di fondo, la necessità di spartire il Paese (prospettiva che un tempo apparteneva solo a una piccola minoranza), è diventata la visione della maggioranza. Tanto è vero che persino il primo ministro di un governo israeliano di destra ha dovuto dichiarare, benché senza entusiasmo, che questa è la posizione ufficiale di Israele.
D’altra parte, tuttavia, più le posizioni della sinistra pacifista sono si diffondevano verso il centro, più la sinistra pacifista si è fatta chiusa, sdegnata e alienata. Come se la sensazione di essere una piccola minoranza nel giusto fosse più importante che riuscire a incidere sulla politica israeliana. Ed ora che le masse dei più semplici appaiono convinte delle sue posizioni, la sinistra pacifista sente come la necessità di venirsene fuori con un’altra posizione minoritaria che sembra fatta apposta per permetterle di continuare ad evitare ogni coinvolgimento con quelle masse.
Ciò nondimeno, poco prima dello scorso Yom Kippur, si è visto un buon tentativo di autoanalisi: un lungo manifesto politico intitolato “Una sinistra nazionale”, redatto da Shmuel Hasfari e Eldad Yaniv (che, per dovere di chiarezza, devo dire d’aver personalmente sottoscritto). Un manifesto che ha scatenato ire furibonde, soprattutto – penso – perché attacca pesantemente i renitenti alla leva.
Tuttavia, mi sono anche chiesto se parte della furia provocata dal documento tra i professionisti della sinistra pacifista – quel campo della sinistra che ama preservare il suo glorioso isolamento – non avesse magari a che fare col fatto che Hasfari e Yaniv hanno essenzialmente ragione: la sinistra pacifista israeliana ha perso la sua forza perché ha fondamentalmente dimenticato gli argomenti che originariamente custodiva a favore dello Stato d’Israele anziché contro di esso, argomenti che scaturivano da genuina preoccupazione per lo Stato, e non da un senso di alienazione dallo Stato.
Stando alla terminologia sviluppata da questa sinistra, a un estremità dello spettro politico israeliano ci sono i cattivi, comunemente indicati come “campo nazionalista”, mentre all’altra estremità i sono i buoni, più noti come i campioni dei “diritti umani”. Questa fasulla percezione è una delle ragioni che spiegano il drastico declino elettorale della sinistra israeliana. Giacché, invece, parte integrante dei diritti umani è anche il diritto all’autodeterminazione nazionale. (Se dovessimo giudicare il ritiro dalla striscia di Gaza esclusivamente in base ai diritti umani individuali, dovremmo subiti ristabilirvi l’occupazione israeliana perché la situazione dei diritti umani individuali, nella striscia di Gaza sotto il regime dell’orrore di Hamas, è gravemente peggiorata.)
Anche il successo che ha conosciuto la sinistra nello spostare l’opinione pubblica israeliana verso il concetto di spartizione non si fonda solo sui diritti umani individuali. Il suo assunto sta, anzi, nella comprensione che il nostro diritto nazionale all’autodeterminazione corre un serio pericolo. L’argomento fondamentale dei sostenitori della spartizione trae forza proprio da qui, e se la sinistra fosse disposta a impegnarsi in una genuina autoanalisi capirebbe che Hasfari e Yaniv almeno su questo hanno perfettamente ragione: una sinistra anti-patriottica non otterrà nessun risultato, a parte la sua personale convinzione di essere nel giusto; viceversa, la sinistra patriottica è quella che ha convinto gli israeliani che è nel loro interesse lasciare i territori, se vogliono evitare di finire sommersi in uno Stato bi-nazionale (di fatto arabo). Solo questa sinistra è quella che può portare alla realizzazione di tale aspirazione nelle difficili condizioni che vedono l’assenza di un valido interlocutore.
Ne risulta che una genuina autoanalisi della sinistra è anche una genuina autoanalisi di noi tutti. È tempo di mobilitare il nostro genuino desiderio di vivere, basato sulla convinzione nel diritto di Israele ad esistere, a sua volta basato sul diritto di tutte le nazioni – la nostra compresa – all’autodeterminazione. Perché tutti noi, in forza dell’amore per Israele e non dell’odio verso di esso, dobbiamo scuoterci dall’illusorio torpore con cui ci lasciamo trascinare dai coloni. È tempo di guardarci negli occhi e dire chiaramente che gli insediamenti sono stati un tragico errore politico e che, per noi prima ancora che per i palestinesi, in nome del nostro patriottismo e non per un rigetto di “sentimenti nazionali”, dobbiamo trovare il modo di eliminare l’occupazione prima che l’occupazione elimini noi.

(Da: YnetNews, 29.09.09)

Nella foto in alto: Gadi Taub, autore di questo articolo

Il Manifesto di Shmuel Hasfari e Eldad Yaniv (in ebraico):

http://www.haaretz.co.il/common/pages/PuArtGet.jhtml?itemNo=1113745&pic=%2Fhasite%2Fimages%2F0.gif&pTitle=85+%F9%F0%E5%FA+%E4%E0%F8%F5&showDate=n&PicOrText=text&width=400&commNo=1

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