E’ già iniziata la riabilitazione dell’assassino di massa Bashar Assad

La strisciante marcia indietro dei detrattori del “macellaio di Damasco” segna la fine delle speranze delle rivolte arabe

Di Amotz Asa-El

Amotz Asa-El, autore di questo articolo

Otto anni dopo che Muhammad Bouazizi si è suicidato dandosi fuoco, le piaghe sociali che aveva svelato con le sue ultime parole rimangono aperte e sanguinanti, ma l’inferno politico che ebbe inizio dal suo gesto estremo è ormai ridotto a un brontolio soffocato. “Come volete che mi guadagni da vivere?”: la disperata domanda del venditore ambulante tunisino dopo una serie di ricatti e angherie culminate nel sequestro da parte di un poliziotto della bilancia che teneva sul suo carretto a mano, è la stessa domanda che successivamente sollevarono moltitudini di altri arabi disperati, molti di loro cercando di raggiungere le sponde, dorate ma inospitali, della vicina Europa. Fu l’esodo da un mondo arabo afflitto da stagnazione economica, alienazione sociale e  bancarotta politica che avevano causato il crollo di diversi regimi, violenze fratricide all’ingrosso, trasferimenti di profughi in massa, e nello Yemen anche carestia ed epidemie.

Ora, mentre va attenuandosi la peggiore delle guerre intestine scaturite da quello sconvolgimento arabo, è già in corso il processo di riabilitazione del più prolifico assassino di massa del secolo. Mentre la ritirata politica dei governi arabi e la partenza dei militari americani contribuiscono a rilegittimare il regime di Bashar Assad, appare chiaro che le classi arabe più povere e sottomesse, la cui terribile condizione era stata così tragicamente manifestata da Bouazizi e da altri che ne hanno seguito il drammatico esempio, hanno perduto la loro guerra.

Poster celebrativo con i volti di: Hassan Nasrallah, capo della milizia libanese Hezbollah, il presidente iraniano Hassan Rouhani, il presidente siriano Bashar Assad e il presidente russo Vladimir Putin

La riabilitazione di Assad deve fare ancora molta strada. La sospensione della Siria della Lega Araba del novembre 2011 non è stata ancora ribaltata, i diplomatici siriani espulsi dalla maggior parte delle capitali arabe devono ancora essere riammessi e gli ambasciatori arabi richiamati da Damasco non vi hanno ancora fatto ritorno. La sospensione della Siria dalla Lega Araba era stata appoggiata a suo tempo da 18 membri ai quali si erano contrapposti solo i quattro paesi arabi in cui l’Iran ha più influenza: il Libano, lo Yemen, ovviamente la stessa Siria, che avevano votato contro, e l’Iraq che si era astenuto. Alla pressione araba su Assad si era aggiunta quella del presidente della non araba Turchia, Recep Tayyip Erdogan, che nel maggio 2013 aveva chiesto le dimissioni del dittatore siriano definendolo “macellaio” e “assassino” e giurando davanti a una folla presso Ankara che Assad avrebbe pagato “un prezzo molto pesante per aver fatto sfoggio di coraggio contro i bambini in culla”. La posizione di Erdogan era stata condivisa dall’Europa. Il primo ministro britannico David Cameron, intervistato dal The Sun nell’ottobre 2015, condannava la Russia per il suo “sostegno al macellaio Assad”, mentre il presidente francese François Hollande nel settembre 2015 affermava all’Onu che i profughi che si accalcavano alle porte dell’Europa erano “in fuga dal regime di Bashar Assad” e che Assad “essendo all’origine di questo dramma, non può essere parte della soluzione”.

Tutto questo accadeva prima che i tanti detrattori di Assad avessero motivo di supporre che il dittatore, alla fine, sarebbe rimasto comunque in sella. Ora che non solo è rimasto in sella, ma è anche sopravvissuto politicamente sia a Cameron che a Hollande e che, in effetti, sembra destinato a sopravvivere anche ai loro successori, ecco che la posizione di un po’ tutti su Assad è cambiata. La Turchia si è rimangiata la sua richiesta originaria, insieme alla più ampia ambizione di riprogrammare la Siria installando a Damasco un regime fondamentalista sunnita. Avendo rinunciato a questo trapianto di cuore, la Turchia si sta ora concentrando sull’amputazione dell’arto curdo siriano. Anche il mondo arabo sta facendo marcia indietro.

Combattenti curde

L’arrivo a Damasco del presidente sudanese Omar al-Bashir (il primo leader arabo a farlo dall’inizio della guerra civile siriana ndr) ha segnalato la fine dell’assedio diplomatico del regime siriano, in realtà già violato nel novembre 2016 quando il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi dichiarò alla tv portoghese che appoggiava gli “eserciti nazionali”, incluso quello siriano. Alla domanda se questo si applicasse anche al regime che sta dietro a quell’esercito, al-Sisi rispose con un inequivocabile “sì”. Dunque, quello che è successo due mesi fa all’Onu quando il ministro degli esteri siriano Walid al-Muallem e il suo collega del Bahrain, Khalid bin Ahmad al-Khalifa, si sono abbracciati e baciati sotto i riflettori della ribalta diplomatica, non è stato un caso. Assad, l’uomo che ha decretato la morte di più arabi di chiunque altro nella storia moderna, viene riabilitato dai governi del mondo arabo. Appropriatamente consegnato da un altro genocida, il regime sudanese, il messaggio arrivato ad Assad a quanto pare è che i membri della Lega Araba vogliono riallacciare le relazioni con la Siria: il che è logico considerando che il Parlamento Arabo – un forum pan-arabo istituito nel 2001 – ha già esortato la Lega Araba a reintegrare quel paese arabo il cui governo ha ripetutamente gassato i suoi stessi cittadini arabi. Questo, naturalmente, si aggiunge al fatto che la richiesta europea che Assad si dimettesse ha lasciato il posto alla tipica “richiesta neutrale” che Assad indica “libere elezioni”.

In breve, la settimana iniziata con il chiaro segnale che ben poco rimarrà in piedi di ciò che per diversi anni erano sembrati la condanna e l’isolamento internazionale, capitanati dai paesi arabi, contro Bashar Assad e il suo regime, si è poi conclusa con la decisione americana di andarsene dalla Siria: e così il popolo siriano viene completamente abbandonato nelle mani di Assad, Vladimir Putin e Ali Khamenei. Assad farà bene a evitarlo, ma di fatto potrebbe già lanciarsi nel suo tour della vittoria.

La riabilitazione in corso di Assad induce a trarre tre conclusioni. La prima è che per l’Egitto, che ha tacitamente innescato questa strisciante reintegrazione, affrontare il fondamentalismo sunnita è più importante di ogni altra cosa. Al-Sisi guarda la realtà dei fatti e vede che la caduta di Assad significherebbe la vittoria non per la libertà della popolazione siriana, ma per gli islamisti che hanno monopolizzato l’assalto al regime di Assad. Al-Sisi non ha torto quando coltiva questo timore, e non ha torto quando valuta che una tale vittoria degli islamisti in Siria avrebbe fomentato gli irriducibili islamisti nello stesso Egitto e altrove.

La seconda conclusione è che, agli occhi di ogni regime in Medio Oriente, gli Stati Uniti si sono ora dimostrati un protettore inaffidabile. L’imminente abbandono dei curdi siriani alla furia che Turchia e Damasco hanno in serbo per loro verrà messo a confronto, nelle capitali della regione, con la lealtà con cui la Russia ha sostenuto Assad ed è stata disposta a rischiare per lui anche quando sembrava sull’orlo del collasso.

Terza e più tragica conclusione, il ritorno di Assad alla legittimità e la partenza di Washington dalla Siria sottolineano l’inutilità di quella che era iniziata come una rivolta sociale pan-araba, e che si sta ora concludendo con il successo della contro-rivoluzione dell’Ancien Régime. Le masse arabe hanno perso quella che all’inizio era stata una causa sociale e civile, per poi essere rapidamente sequestrata dal fondamentalismo islamista e infine completamente divorata dal tribalismo. In mancanza di fulcro, di leadership e di risorse, le classi arabe più povere e sottomesse si ritrovano ora, dopo otto anni di violenze inenarrabili, indigenti incolte e inermi come lo erano quando Bouazizi appiccò l’incendio che rovesciò quattro presidenti e scatenò varie guerre civili, prima che tutto tornasse al punto di partenza.

(Da: Jerusalem Post, 20.12.18)