Punto per punto, ecco perché i palestinesi avrebbero rifiutato qualunque accordo proposto da Trump

Olp e Autorità Palestinese vivono ancora nel 1947 e non accettano nessun piano che non assecondi l'obiettivo di cancellare lo stato ebraico

Di Maurice Hirsch

Itamar Marcus e Maurice Hirsch, autori di questo articolo

Il rifiuto a priori del nuovo piano di pace degli Stati Uniti da parte dell’Olp e dell’Autorità Palestinese non è una sorpresa per chiunque abbia familiarità con il loro approccio, che riflette quelle che sono le rivendicazioni costantemente espresse da Olp e Autorità Palestinese riguardo a qualsiasi possibile accordo di pace. Prese nel loro complesso, queste rivendicazioni comportano di fatto la demolizione di Israele come stato nazionale del popolo ebraico. L’esperienza dimostra che qualsiasi proposta di accordo che non soddisfi queste richieste, e il loro esito complessivo, sarà sempre respinta dai palestinesi.

L’accordo di pace israelo-palestinese originale venne firmato da Israele e Olp. L’Autorità Palestinese venne creata in applicazione dell’accordo del 1993, di un successivo accordo del 1994 e infine dell’accordo interinale del 1995. Questi accordi sono noti nel loro insieme come “Accordi di Oslo”. In base a quegli accordi, una serie di questioni vennero demandate a futuri “negoziati sullo status definitivo”. Erano: Gerusalemme, insediamenti, luoghi militari specifici, profughi palestinesi, frontiere, relazioni con l’estero.

Pur avendo accettato e firmato che questi temi sarebbero stati oggetto di negoziati, in una serie di occasioni nei successivi 25 anni Olp e Autorità Palestinese hanno fatto capire chiaramente che, pur essendo ben lieti di assumere il controllo e la giurisdizione che gli Accordi assegnavano loro, non avevano tuttavia nessuna intenzione di negoziare e raggiungere un compromesso sulle questioni rimaste aperte.

Gerusalemme. La posizione di Olp e Autorità Palestinese su Gerusalemme è inequivocabile e irremovibile. Secondo loro Gerusalemme, in particolare il Monte del Tempio ma non solo quello, costituisce un sacro territorio islamico che nessuna entità terrena ha facoltà di cedere, in tutto o in parte, a un governo non islamico. In un’intervista lo scorso settembre a radio Voce della Palestina, controllata dall’Autorità Palestinese, il presidente Abu Mazen ha dichiarato: “Il nostro grande popolo non accetterà mai l’affermazione che Gerusalemme è capitale di due stati. Gerusalemme occupata nel 1967 è in ogni metro e centimetro la nostra capitale, e lo dico ad alta voce: Gerusalemme e Palestina non sono in vendita né oggetto di negoziato”. Qualsiasi accordo di pace che preveda di lasciare sotto giurisdizione non-palestinese/non-islamica una parte di Gerusalemme, compreso il piazzale del Muro Occidentale (“del pianto”) ma non solo quello, sarà invariabilmente respinto.

“Il ritorno è nostro diritto e nostra volontà”. Tutta la pubblicistica palestinese mostra chiaramente il proprio obiettivo: cancellare Israele dalla carta geografica

Insediamenti e cittadini israeliani in Cisgiordania. All’inizio, la dichiarata disponibilità dell’Olp a negoziare sugli insediamenti poteva far pensare a una certa flessibilità e forse persino al riconoscimento del fatto che prima del 1948 esistevano numerose comunità ebraiche in Giudea e Samaria (Cisgiordania) e che degli ebrei israeliani avrebbero potuto continuare a vivere nella regione anche dopo un accordo di pace definitivo. Dopo di allora, tuttavia, la posizione di Olp e Autorità Palestinese si è chiarita in modo molto netto. In un infervorato intervento dell’anno scorso sulla sua pagina Facebook ufficiale, Abu Mazen ha sostenuto che i palestinesi sono “i cananei”, che la “terra appartiene ai cananei” e che ogni casa israeliana “costruita sulla nostra terra” finirà “nella pattumiera della storia”. Secondo Olp e Autorità Palestinese, va respinto senza mezzi termini qualsiasi accordo di pace che non garantisca lo smantellamento di ogni singolo “insediamento”, compresi i quartieri ebraici di Gerusalemme, e l’espulsione di ogni singolo israeliano da quelle aree col risultato di creare un’area judenfrei (ripulita dalla presenza ebraica).

Profughi palestinesi. Benché con gli Accordi di Oslo avessero accettato di negoziare una soluzione per i “profughi palestinesi”, nei successivi 25 anni è diventato chiaro che Olp e Autorità Palestinese non hanno intenzione di scendere a compromessi su questo argomento. In un’intervista a radio Voce della Palestina dell’agosto 2018, il primo ministro dell’Autorità Palestinese Mohammad Shtayyeh ha dichiarato: “Né l’America né nessun altro riuscirà mai a cancellare la questione dei profughi. Non ci piegheremo mai all’estorsione [leggi: indennizzi, ndr] e non rinunceremo mai al diritto al ritorno”. Secondo Olp e Autorità Palestinese, il “diritto al ritorno” di ogni profugo palestinese è un diritto individuale che nessuna organizzazione o ente ha la facoltà di cedere. Qualsiasi eventuale piano di pace deve garantire il diritto di ogni singolo profugo palestinese a stabilirsi, se lo vuole, nell’area dove nel 1948 vivevano lui, o molto più probabilmente suo padre/suo nonno/suo bisnonno. Per quantificare quante persone dovrebbero vedersi riconosciuto il diritto di stabilirsi in Israele, l’Autorità Palestinese si basa sul numero di “profughi” registrati presso l’agenzia Onu Unrwa, che nella sua definizione di “profughi palestinesi” include tutti i discendenti maschi, indipendentemente dal fatto che abbiano ottenuto la cittadinanza altrove (o che risiedano già all’interno della ex Palestina Mandataria del 1948). In base di questa definizione, attualmente risultano 5 milioni e 545.540 “profughi” palestinesi registrati presso l’Unrwa (contro i 750mila profughi presi in carico dall’Unrwa nel 1949). Se a questi si aggiungono le mogli dei “profughi” e i figli di madri “profughe” (che hanno ereditato lo status di profughe dai padri, ma non possono trasmetterlo ai figli se non hanno sposato un profugo palestinese maschio), è ragionevole stimare che Olp e Autorità Palestinese pretendono che Israele (un paese di 9 milioni di abitanti di cui 6,5 ebrei) accetti di assorbire una popolazione di “profughi” palestinesi composta da non meno di 7,5 milioni di persone. Olp e Autorità Palestinese sanno benissimo che un tale afflusso di “profughi” palestinesi segnerebbe la fine dello stato ebraico democratico. Ma qualsiasi piano di pace che richieda a Olp e Autorità Palestinese di accettare un diverso compromesso in materia di profughi palestinesi è destinato ad essere respinto.

Confini. Negli scorsi 25 anni Olp e Autorità Palestinese hanno ripetuto fino alla nausea che qualsiasi piano di pace deve accettare che il territorio dell’entità palestinese venga determinato in base “ai confini del 4 giugno 1967″. In realtà le linee – non i confini – del 4 giugno 1967 (vigilia della guerra dei sei giorni) erano le linee armistiziali del 1949 stabilite alla fine della guerra d’indipendenza d’Israele. Su pressante richiesta dei paesi arabi, gli accordi armistiziali affermavano espressamente che quelle linee non erano in alcun modo da intendere come “confini” (“The Armistice Demarcation Line is not to be construed in any sense as a political or territorial boundary”). Infatti, accettare l’esistenza di “confini” avrebbe significato che i paesi arabi accettavano l’esistenza di Israele, per di più su un area diversa da quella prevista dal piano di spartizione delle Nazioni Unite del 1947 (peraltro anch’esso rifiutato dai paesi arabi). Dal momento che i paesi arabi si rifiutavano di accettare l’esistenza stessa di Israele, rifiutavano anche di considerare le linee armistiziali come confini. Anche su questo tema, i palestinesi sono intransigenti. Proprio di recente, il capo negoziatore dell’Olp Saeb Erekat ha ammesso che nel 2008 l’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert aveva offerto ad Abu Mazen (che è anche a capo dell’Olp) un territorio equivalente a più del 100% della Cisgiordania grazie a uno scambio di terre del 6,%. Ma Abu Mazen respinse l’offerta. Qualsiasi eventuale accordo di pace che non accetti l’idea di adottare i “confini del 1967” inventati dai palestinesi è destinato ad essere respinto.

Per quanto riguarda le “relazioni con l’estero”, Olp e Autorità Palestinese iniziarono immediatamente a violare tutte le restrizioni che erano previste dagli Accordi di Oslo: stabilirono “ambasciate” all’estero, chiesero il riconoscimento dello “stato di Palestina” da parte di paesi stranieri e delle Nazioni Unite, aderirono a convenzioni e trattati internazionali e persino alla Corte Penale Internazionale la cui appartenenza è limitata agli “stati”.

Tutto questo viene descritto da alcuni come un “rigetto” degli Accordi di Olso da parte palestinese. Ma a ben vedere non è una definizione corretta. La verità è che per anni i palestinesi hanno sempre e costantemente espresso le loro pretese in merito a qualsiasi eventuale piano di pace. L’errore degli Stati Uniti e degli europei è stato quello di ignorare ciò che i palestinesi dicevano, nella speranza che vi potesse essere qualche flessibilità. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. La dirigenza palestinese e i suoi sostenitori potranno continuare ad attribuire il loro rifiuto del nuovo piano americano al piano stesso, alla mancanza di dialogo, ai pregiudizi dell’amministrazione Trump. Ma la verità è che respingerebbero (come hanno già fatto più volte) qualsiasi piano di pace, offerto da chiunque e in qualsiasi momento, che non accogliesse integralmente le loro richieste. Che complessivamente si tradurrebbero nella sicura disintegrazione dello stato nazionale ebraico d’Israele. È giunto l’ora che i vari soggetti che si adoperano assiduamente per arrivare a un definitivo piano di pace israelo-palestinese si rendano conto che Olp e Autorità Palestinese vivono ancora nel 1947 e respingono ancora l’esistenza stessa di Israele. Nessuna proposta o concessione che sia meno dell’annichilimento di Israele potrà mai accontentare Olp e Autorità Palestinese.

(Da: jns.org, 28.1.20)