Ehud Barak sull’Iran: «Come nel ’67, Israele è con un coltello alla gola»

«E se il negoziato coi palestinesi fallisce, dovremo considerare mosse unilaterali».

image_3446“Abbiamo una coalizione di governo formata da 94 parlamentari [su 120], questo è il momento di condurre un processo diplomatico e, se non sarà possibile arrivare a un accordo definitivo coi palestinesi, allora dovremo prendere in considerazione un accordo provvisorio o in alternativa una misura unilaterale. Israele non può permettere che continui questo stallo”. Lo ha detto mercoledì mattina il ministro della difesa israeliano Ehud Barak in un discorso all’Institute for National Security Studies dell’Università di Tel Aviv. “E’ una corsa contro il tempo – ha continuato Barak – Se arriveremo al limite, ne pagheremo il prezzo. A quel punto, quelli che adesso dormono profondamente chiederanno: come avete potuto non vedere quel che stava arrivando?”.
Barak ha poi parlato del programma nucleare iraniano, e ha ricordato che Israele, prima della guerra dei sei giorni del 1967, si sentiva “con un coltello alla gola” e capì di non avere altra scelta che agire. Secondo Barak, la minaccia della bomba atomica iraniana sta rapidamente arrivando allo stesso punto. Un coltello alla gola, ha spiegato Barak, significa che i tuoi nemici hanno ottenuto le armi per eliminarti e sono pronti a usarle. E quando si tratta di capacità nucleari, dotarsi di queste armi è di per sé un coltello alla gola. Quando l’Iran avrà ottenuto l’atomica, sarà troppo tardi per agire”.
“E’ impossibile dormire sonni tranquilli – ha detto Barak – mentre gli iraniani procedono metodicamente verso il punto in cui Israele non potrà fare più niente. Il momento che conta è l’ultimo in cui si può ancora fare qualcosa. Quello è il momento che deve essere individuato. Non c’è ragione di affrettarlo né di annunciare che è arrivato, ma sarebbe imperdonabile chiudere gli occhi. Sono certo – ha continuato il ministro della difesa israeliano – che politica e responsabilità della sicurezza possono combinarsi con la salvaguardia dello speciale rapporto tra Israele e Stati Uniti, il nostro più importante alleato. È importante per la nostra causa comune: impedire che l’Iran diventi una potenza nucleare. Nessuno vuole la guerra. Ma nonostante la generale preferenza per la diplomazia, nessuna opzione può essere scartata a priori”.
“Gli iraniani sono pazienti – ha spiegato Barak – Dicono: abbiamo aspettato quattromila anni prima di avere capacità nucleare, possiamo aspettare ancora qualche settimana, o qualcosa di più, evitando di fare qualcosa che possa provocare la reazione degli Stati Uniti o di Israele”.
Circa le implicazioni regionali di un Iran nucleare, Barak ha osservato: “I sauditi dicono apertamente che dovrebbero diventare anche loro rapidamente una potenza nucleare. Sicuramente la Turchia dovrebbe fare lo stesso, e anche il nuovo Egitto si troverebbe trascinato nella corsa alla Bomba”.
Barak ha respinto le insinuazioni di chi sostiene che la leadership israeliana voglia la guerra. Ma ha ribadito che Israele non può chiudere gli occhi e aspettare che gli iraniani ottengano la capacità nucleare. E ha spiegato: “Le difficoltà della comunità internazionale ad agire anche in un caso evidente come quello della Siria devono dirci qualcosa riguardo anche ad altri settori”. Barak ha negato che lui e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu stiano monopolizzando il processo decisionale sulla questione iraniana. “Non c’è questione in Israele che sia stata discussa quanto questa – ha detto – Non esiste nessun arcano che venga deciso da due solo persone in una stanza buia. È ridicolo. La questione iraniana è stata discussa tantissimo, anche troppo. Vi sono state anche delle dichiarazioni pubbliche irresponsabili che hanno danneggiato lo sforzo per fermare l’Iran. Ma alla fine – ha affermato Barak – è ovvio che sarà il governo israeliano a prendere le decisioni cruciali su questioni che sono vitali per il futuro e la sicurezza dello Stato d’Israele e, aggiungerei sommessamente, del popolo ebraico”.
Barak ha poi criticato con forza il dittatore siriano Bashar Assad e ha definito il recente massacro nella città di Hula “un nuovo primato del regime di Assad in fatto di uccisioni spietate”. Ed ha aggiunto: “Il mondo deve agire, non può limitarsi a parlare. Qui si tratta di crimini contro l’umanità. Bisogna trovare il modo di imporre una soluzione alla famiglia Assad”.
Infine Barak ha definito il trattato di pace con l’Egitto “un asset nazionale” e ha detto che sia l’Egitto che la comunità internazionale hanno tutto l’interesse a garantire che il Cairo onori i suoi impegni anche in futuro.

L’ipotesi di “mossa unilaterale” ventilata dal ministro della difesa Ehud Barak è stata rilanciata nel corso della conferenza di Tel Aviv da Amos Yadlin, ex capo dell’intelligence militare, ora direttore dell’Institute for National Security Studies. Yadlin ha presentato un rapporto in cui si afferma che, nel futuro prevedibile, non vi sono concrete possibilità di arrivare a un accordo di pace negoziato con l’Autorità Palestinese perché la parte palestinese non intende accettare Israele come stato ebraico né rinunciare al cosiddetto diritto al ritorno. Da qui la necessità di prendere in considerazione un eventuale ritiro unilaterale dalla Cisgiordania.
Di opinione opposta il ministro per gli affari strategici Moshe Ya’alon, secondo il quale qualunque ritiro unilaterale verrebbe visto da parte palestinese come “un segno di debolezza”, convincendoli a inasprire ancor più le loro posizioni intransigenti. Intervenendo mercoledì alla conferenza di Tel Aviv, Ya’alon ha detto: “Chi crede che il conflitto sia iniziato nel 1967 e possa terminare sulle linee del 1967 non ha capito nulla di questo conflitto”.
Dal canto suo Nabil Abu Rudaineh, portavoce di Abu Mazen, ha ribadito mercoledì sera che l’Autorità Palestinese è totalmente contraria a qualunque ipotesi di ritiro unilaterale o di stato palestinese con confini provvisori.

(Da: Ha’aretz, Jerusalem Post, YnetNews, 30.5.12)

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