Elezioni israeliane: uno sguardo al di là dei luoghi comuni

Miti e preconcetti che falsano il giudizio degli “esperti” stranieri

Di Noru Tsalic

Noru Tsalic, autore di questo articolo

Noru Tsalic, autore di questo articolo

Ancora una volta, i risultati delle elezioni parlamentari israeliane hanno preso in contropiede tutti gli analisti stranieri. Dall’”esperto” di Medio Oriente della BBC Jeremy Bowen a quello del New York Times Jodi Rudoren, le vaste schiere di opinionisti e giornalisti che si guadagnano da vivere “analizzando” Israele hanno semplicemente toppato, nonostante la relativa trasparenza dei processi politici del paese. Nessuna meraviglia. Sono affetti dalle tipiche malattie professionali del giornalismo “moderno”: negligenza, conformismo e miopia indotta da pregiudizio ideologico. Ma il clamoroso fiasco nell’arte delle previsioni (che è già di per sé il marchio di fabbrica di un giornalismo predicatorio anziché investigativo) non impedisce a questi soloni di propinarci la loro spiegazione. Ed ecco così il repentino passaggio, nell’arco di poche ore, da “Netanyahu destinato alla sconfitta” a “Netanyahu tiene in pugno il paese”. Due letture, è appena il caso di notare, dettate entrambe da superficialità e scarsa comprensione dei fenomeni. Esaminiamo, uno a uno, i presupposti infondati su cui questi esperti hanno fondato le loro analisi.

Non si vota sulla pace, si vota sull’economia. Durante la campagna elettorale israeliana,   innumerevoli mass-media hanno ripetuto che i temi della pace e della sicurezza erano passati in secondo piano e che gli israeliani erano concentrati sulle condizioni dell’economia, sull’aumento dei prezzi delle case, sui finanziamenti al sistema sanitario del paese.

Figura 1: spostamento a destra? (clicca per ingrandire)

Figura 1 – Slittamento a destra? (clicca per ingrandire)

Invece, come i risultati hanno mostrato in modo inequivocabile, la situazione economica (comunque, tutt’altro che catastrofica) non ha spinto gli israeliani a votare per i partiti che promettevano di “colmare i gap sociali”. I temi della sicurezza sono rimasti in prima piano, e con essi il conflitto con i palestinesi. E’ solo che gli israeliani sono diventati sempre più scettici circa i negoziati con un interlocutore che, pur apparentemente interessato alla “pace”, si adopera per trascinare Israele davanti a un tribunale internazionale, per boicottarlo e rovinarlo economicamente e isolarlo in ogni consesso globale compresa l’accademia, la ricerca scientifica, la cultura e lo sport; che continua a celebrare ogni “martire” che infligge attacchi terroristici ai cittadini israeliani, e che ha in programma di invaderne il paese con una marea di cosiddetti “profughi” che in questo paese non sono mai stati in vita loro. Come ha scritto Arye Mekel, prima viene la vita, poi la qualità della vita.

Fig 2 (clicca per ingrandire)

Fig 2 – La La sinistra perde il contatto col mainstream (clicca per ingrandire)

Israele vira a destra. Da anni i mass-media occidentali sostengono che l’elettorato israeliano sta inesorabilmente scivolando verso destra, un fatto che viene dato per scontato senza bisogno di dimostrarlo coi numeri. In realtà, non solo non c’è nessuna “svolta a destra”, ma i numeri farebbero persino supporre il contrario, come si può vedere dalla Figura 1 che mostra i risultati delle elezioni parlamentari tenutesi in Israele negli ultimi 20 anni. Ciò che è realmente accaduto non è una “svolta a destra”, ma la disgregazione della “sinistra ragionevole”, che si è trovata sempre più scollegata dal mainstream della società israeliana (Figura 2), perdendo ogni suo appeal verso gli elettori oscillanti di centro.

fig 3

Figura 3 – Gli “indifferenti” arabi israeliani (clicca per ingrandire)

 

Arabi israeliani alienati e indifferenti.Un altro mito spesso diffuso dagli esperti occidentali è l’immagine degli arabi israeliani come apatici perché “si sentono emarginati e alienati”, e dunque totalmente disinteressati alla vita politica israeliana. Il che naturalmente suscita “dubbi sullo stato di salute della democrazia israeliana”, come scrisse Jodi Rudoren sul New York Times in un articolo del 2013. A riprova, viene solitamente citato il calo della partecipazione elettorale da parte della comunità araba d’Israele. Ma le cose non stanno così (Figura 3).  Indipendentemente dal tasso generale di affluenza alle urne (e a dispetto delle continue pressioni per organizzare boicottaggi), gli arabi israeliani hanno votato in numero crescente, manifestando inequivocabile interesse e fiducia nei processi democratici del paese. È vero che votano principalmente (ma non solo) secondo linee etniche, cioè per partiti etnici arabi i cui leader funzionano più come rappresentanti dell’Olp che dei rispettivi collegi elettorali. Ma ci sono segnali che anche questo sta cominciando a cambiare. Per inciso, vorrei osservare che c’è almeno un arabo israeliano che certamente non poteva permettersi di restare apatico: Salim Jubran, il giudice della Corte Suprema d’Israele che ha presieduto la Commissione Elettorale nazionale, l’organismo di sorveglianza delle elezioni.

fig 4

Figura 4 – Ultra-ortodossi e laicisti (clicca per ingrandire)

Il pericolo ultra-ortodossi. Un altro preconcetto diffuso dai mass-media internazionali è l’immagine del potere quasi occulto esercitato dai partiti impropriamente definiti “ultra-ortodossi” (haredi, in ebraico). È vero che la popolazione haredi d’Israele è in crescita e oggi conta più del 10% della popolazione totale. Ed è vero che, come gli arabi israeliani, anche gli ebrei haredi tendono a votare per “i loro partiti” Shas e Yahadut HaTorah, i quali però, a differenza dei partiti arabi, si battono esclusivamente per gli interessi dei loro elettori. Ma non si può parlare, come invece ha fatto il Washington Post, di una “crescente influenza elettorale della comunità ultra-ortodossa di Israele sulla politica del paese”. I numeri (Figura 4) mostrano che l’influenza haredi non è “in crescita”. E se è vero che il sistema israeliano pone le formazioni minori in posizione cruciale per la formazione delle coalizioni, è vero anche che i partiti haredi non sono certo gli unici kingmaker. La loro influenza è più che bilanciata da partiti laicisti come Israel Betenu, Yesh Atid e Meretz. Tanto è vero che, dopo le elezioni del 2013, i partiti haredi sono rimasti fuori dal governo. E se nel prossimo invece entreranno, dovranno convivere con formazioni laiciste.

“Non voglio una soluzione a un solo stato – ha detto Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in un’intervista giovedì sera su NBC – Voglio una soluzione a due stati pacifica e sostenibile. Ma per far questo, le circostanze devono cambiare. Non ho cambiato la mia politica. Non ho mai ritrattato il mio discorso di sei anni fa alla Bar-Ilan University a favore di uno stato palestinese smilitarizzato che riconosca uno stato ebraico. Quella che è cambiata è la realtà delle cose. Il presidente palestinese Abu Mazen si rifiuta di riconoscere lo stato ebraico e ha stretto un patto con Hamas, che invoca la distruzione dello stato ebraico. Intanto, tutti i territori che vengono sgomberati, oggi in Medio Oriente, vengono occupati da forze islamiste. Noi vogliamo che questa situazione cambi in modo da poter realizzare la prospettiva di una pace vera e sostenibile”.

No allo stato palestinese. Nelle ultime ore prima del voto, il primo ministro Benjamin Netanyahu avrebbe promesso che, se eletto, non permetterà la creazione di uno stato palestinese. La dichiarazione, che sembrava segnare un’inversione rispetto alla sua posizione precedente, è stata avidamente rilanciata da tutti i mass-media, in particolare da coloro che amano odiare Netanyahu. Ma chi avesse voluto analizzare attentamente la dichiarazione (cosa che pochi giornalisti occidentali sono disposti a fare quando si tratta di Israele, sebbene siano capaci di prodursi in sofisticatissime analisi filologiche quando si tratta di ingentilire le imbarazzanti dichiarazioni arabe), avrebbe notato che il no di Netanyahu allo stato palestinese era ben calibrato con la sottolineatura che parlava della situazione di “oggi” in quanto diversa da quella di “ieri”, cioè fino a pochi anni fa, ed eventualmente di “domani”. Una posizione che lascia ampi margini di manovra a un politico intelligente e navigato. Quello che la maggior parte dei commentatori non ha rilevato è lo sfondo su cui era stata fatta quell’affermazione. A pochi giorni dal voto la stampa israeliana aveva pubblicato un documento riservato redatto dal negoziatore di Netanyahu, Yitzhak Molcho, che elencava una serie incredibile di concessioni israeliane. Noncuranti delle smentite che spiegavano che non si trattava di promesse ma di una bozza di lavoro che sintetizzava posizioni ancora in discussione, molti mass-media scrissero che il documento sbugiardava Netanyahu smentendo le dure posizioni da lui pubblicamente sostenute. Di fronte a un tale colpo basso elettorale, non c’è da stupirsi che Netanyahu abbia sentito il bisogno di ribadire la sua linea nel modo più secco possibile. L’ha capito lo stesso Segretario generale della Lega Araba, Nabil al-Arabi, che ha detto: “Ritengo che si trattasse di affermazioni elettoralistiche, il che non significa che poi sarà questa la politica del governo israeliano. Netanyahu non stava illustrando le linee politiche delle futuro governo. Aspettiamo e vediamo”.

Ma ovviamente gli “esperti” occidentali continuano ostinatamente ad applicare a Israele l’approccio del “bicchiere mezzo vuoto”. Paradossalmente, è più interessante il commento arrivato da un giornalista palestinese, che ha affermato: “Noi diciamo tutte queste brutte cose su Israele, ma almeno la gente là ha il diritto di votare e di godersi la democrazia. Possiamo solo invidiare gli israeliani. I nostri leader non vogliono le elezioni, vogliono rimanere in carica per sempre”.

(Da: Times of Israel, 19.3.15)