Elezioni sui temi di politica interna

Gli israeliani hanno smesso di lacerarsi su un conflitto che non credono risolvibile in questa generazione.

Di Amotz Asa-El

image_3644Quelle di martedì sono elezioni storiche. Ma non per l’identità del vincitore, dove nessuno si aspetta sorprese, né per qualche idea nuova, che nessun candidato ha introdotto nel dibattito, e nemmeno per i tanti volti nuovi (un terzo della Knesset, un dato senza precedenti) che ora controlleranno la sfera pubblica.
Le elezioni israeliane per la 19esima Knesset sono fondamentali perché è la prima volta dal 1965 che sono dominate dalle questioni di politica interna. È attraverso questo prisma che devono essere considerati i partiti, i temi e i candidati.
Tra i partiti, bisogna riconoscere a quello laburista il merito per questo cambiamento nell’ordine del giorno. La sua decisione strategica di focalizzare la campagna elettorale sull’economia ignorando quasi completamente gli affari esteri è stata un successo. È di questo che la maggior parte degli elettori voleva discutere, e ed è di questo che si è finito per discutere durante la campagna elettorale. Dopo aver consentito per decenni alla destra e alla sinistra di predicare e praticare le loro rispettive visioni su “totalità della Terra d’Israele” e “terra in cambio di pace”, gli elettori oscillanti hanno concluso che stavano sprecando le loro limitate risorse politiche a lacerarsi su un conflitto che non credono più sia risolvibile in questa generazione. Il grosso dell’elettorato che ha combattuto la guerra contro gli stragisti suicidi, che ha imposto all’allora primo ministro Ariel Sharon e all’allora ministro degli esteri Shimon Peres la costruzione della barriera difensiva fra Israele e Cisgiordania, e che infine ha sostenuto il completo ritiro dalla striscia di Gaza, è lo stesso elettorato che successivamente è sceso nelle strade a protestare contro il carovita chiedendo case, istruzione e generi alimentari più economici. E così, anche se non si intravede affatto la fine del conflitto in Medio Oriente, la politica israeliana è entrata nell’era del post-conflitto, dal momento che gli elettori sono giunti a considerare il trattamento del conflitto come una questione di gestione dell’esistente, più che di posizioni ideologiche.
I politici che hanno tentato di opporsi a questa tendenza – Tzipi Livni (HaTnuah), concentrata sulla questione palestinese, e Shaul Mofaz (Kadima), inizialmente concentrato sulla questione Iran – hanno mancato l’obiettivo. Il pubblico sbadigliava così vistosamente davanti a questioni sulle quali sente che Israele ha ben pochi margini di manovra che i due hanno ben presto raggiunto gli altri sulle questioni interne: Livni ricordando tutto a un tratto il suo passato di “zarina delle privatizzazioni” nel governo Netanyahu che ora dice di rimpiangere, e Mofaz celebrando le sue origini sociali di giovane immigrato dall’Iran che è stato capace di scalare i ranghi delle Forze di Difesa fino al massimo posto di comando. In effetti Kadima, il partito alla cui guida i due si sono avvicendati, era entrato nella scorsa Knesset come il gruppo di maggioranza per uscirne alla fine della legislatura come una reliquia politica, essendo stato preso totalmente in contropiede dalla sollevazione sociale dell’estate 2011. Mentre predicava la pace con interlocutori in cui non crede quasi più nessuno, Kadima scopriva che la gente si aspetta dai propri rappresentanti politici che non attendano – per occuparsi di mutui, rette scolastiche e prezzi del formaggio – sino al giorno in cui i nemici di Israele si persuaderanno a fondere le spade in aratri.
Il dibattito interno verte in gran parte sul decennio di Bibi-economia, iniziata quando Bibi Netanyahu era ministro delle finanze nel governo Sharon, confermata dal governo di Ehud Olmert, e culminata nel seconda premiership di Netanyahu. Più in particolare, il voto contrappone la laburista Shelly Yacimovich, che intende incrementare la spesa sociale e le tasse ai ceti alti, contro Netanyahu che intende riequilibrare il bilancio tagliando le spese. Paradossalmente la crescita del deficit di bilancio al 4,2% del Pil è stata in gran parte causata dalle misure con cui Netanyahu è venuto incontro alle proteste sociali estendendo l’istruzione gratuita dei bambini a partire dai 3 anni mentre prima iniziava a 5 anni, insieme ad altre costose concessioni che ha fatto alla sinistra economica. Per ironia della sorte, quando Netanyahu è tornato al posto di comando il suo zelo riformista era scemato. La riforma della proprietà terriera che aveva promesso avrebbe potuto inondare il mercato di proprietà immobiliari dello stato, innescando un calo dei prezzi. Ma di fronte all’opposizione dei suoi alleati di governo, ha fatto marcia indietro. Le tardive promesse di Netanyahu – che questa volta non darà il ministero dell’edilizia e dell’abitazione allo Shas e che nominerà, come effettivamente ha fatto due giorni prima del voto, il parlamentare pro-mercato Moshe Kahlon come direttore della Israel Land Authority – indicano quanto si rammarichi di essere sceso a compromessi sulle proprie convinzioni.

(Da: Jerusalem Post, 22.1.13)