Fotografare i sopravvissuti e la loro “vittoria” contro il piano genocida dei nazisti

Un fotografo israeliano si è ripromesso di ritrarre i sopravvissuti alla Shoà insieme a tutti i loro discendenti: figli, nipoti e pronipoti

Di Judy Maltz

Judy Maltz, autrice di questo articolo

Yanai Rubaja si è costruito una carriera di successo fotografando eventi e matrimoni, ed è con questo che paga le bollette. Ma la sua vera gratificazione professionale deriva da un progetto che non comporta nessun compenso finanziario. Lui definisce questo lavoro volontario “qualcosa per l’anima”. Rubaja si è dato una missione: si è ripromesso di fotografare quanti più sopravvissuti alla Shoà gli è possibile circondati dai loro discendenti. “Queste fotografie – dice – mostrano la loro vittoria. E sono il mio piccolo regalo per loro”.

Rubaja, 42 anni e padre di due figli, ha già fotografato quasi 300 sopravvissuti circondati dai loro figli, nipoti e, in molti casi, pronipoti, nel quadro del progetto “Un regalo per le generazioni che verranno”, giunto ora al suo settimo anno. “Volevo fare qualcosa per i sopravvissuti alla Shoà – spiega – Ma non sono ricco e quindi donare una somma di denaro importante era fuori discussione. Mi sono reso conto che una delle cose che mi piace di più, quando fotografo i matrimoni, è riunire tutta la famiglia per uno scatto di gruppo. Ed è così che mi è venuta questa idea”.

Rubaja, che vive nella piccola comunità agricola di Rinatya, nel centro di Israele, personalmente non ha alcun collegamento diretto con l’Olocausto: la sua famiglia è immigrata in Israele dall’Argentina. Ma crescere nel paese con la più grande concentrazione di sopravvissuti al mondo, dice, lo ha reso profondamente sensibile alle loro storie e alle loro condizioni.

Il fotografo Yanai Rubaja

I contatti avvengono principalmente attraverso il passaparola e i social network. Generalmente sono i sopravvissuti che lo contattano quando sentono parlare del suo progetto (Rubaja ha una pagina apposita su Facebook dove vengono postate tutte le fotografie). Aggiunge che è disposto a raggiungere qualunque parte di Israele per fotografarli. A volte, se il posto è lontano, chiede un contributo per la benzina, ma nient’altro.

Da quando ha lanciato il progetto nel 2012, Rubaja ha fotografato sopravvissuti dei campi di sterminio (uno addirittura uscito miracolosamente vivo da una camera a gas difettosa) e dei ghetti; combattenti partigiani e “bambini nascosti”. Il suo soggetto più anziano è stata una donna di 100 anni, Sabina, che ha fotografato sdraiata a letto circondata dalla sua famiglia. Un altro era un sopravvissuto della famosa “lista di Schindler”. E poi ancora, un gemello che ad Auschwitz subì gli esperimenti del famigerato medico delle SS Josef Mengele.

Meir Liberman (in maglietta bianca) circondato dai suoi figli (magliette azzurre), nipoti (magliette viola) e pronipoti (magliette verdi)

Rubaja scatta decine di foto ad ogni sessione: i sopravvissuti da soli, con i coniugi, con i figli, con i nipoti, i pronipoti e infine tutto il clan riunito. Non tutte le foto sono in posa. In realtà, Rubaja dice di preferire spesso gli scatti spontanei, quando i suoi soggetti non pensano alla macchina fotografica.

Sfogliano la collezione, indica alcuni dei suoi scatti preferiti. Uno mostra un enorme clan famigliare di decine di membri con magliette a colori coordinati: i figli Liberman in azzurro, i nipoti in viola e i pronipoti in verde. Al centro, il sopravvissuto e patriarca della famiglia, Meir Liberman, con la maglietta bianca. Altri scatti fra i suoi preferiti sono quelli che ritraggono i sopravvissuti mentre si godono momenti intimi e lieti con i loro discendenti più piccoli.

Uno degli aspetti più complicati è coordinare le sessioni di ripresa. “Quando sono coinvolte così tante persone, come mi capita con molte di queste famiglie, è difficile trovare un momento che vada bene per tutti”, spiega Rubaja.

Il suo sogno, ora, è portare il progetto all’estero: negli Stati Uniti, in Canada, in Australia e in altri paesi dove ci sono ancora dei sopravvissuti. “Temo che tra altri cinque o dieci anni potrebbe essere troppo tardi”, sospira.

(Da: Ha’aretz, 30.4.19)

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