Gerusalemme è già la capitale d’Israele. Basterebbe prenderne atto

Washington ignora una propria legge e arriva a coprirsi di ridicolo nell’illusione di placare gli estremisti arabi e musulmani

Editoriale del Jerusalem Post

Emanuele Luzzati, “Neve a Gerusalemme”

La nuova amministrazione americana manterrà la promessa elettorale di Donald Trump di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme? Se sì, non farà altro che applicare una legge già in vigore negli Stati Uniti. Nel 1995, infatti, il Congresso americano approvò il Jerusalem Embassy Act che prevede di promuovere e finanziare il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme. Il termine per il passaggio era fissato entro e non oltre il 31 maggio 1999. La legge chiedeva anche che Gerusalemme restasse una città indivisa e fosse riconosciuta come la capitale dello stato di Israele. Ma questa legge, nonostante sia stata approvata a grande maggioranza sia dal Senato (93 voti contro 5) che dalla Camera (374 voti contro 37), non è stata mai attuata per via dell’opposizione di tutti i presidenti che si sono succeduti – Bill Clinton, George Bush e Barack Obama – ognuno dei quali ha giustificato il rifiuto sostenendo, sotto l’influenza del Dipartimento di stato, che tale cambiamento nella politica degli Stati Uniti potrebbe provocare grande clamore in tutto il mondo arabo e musulmano e danneggiare seriamente le relazioni degli Stati Uniti. L’equilibrio dei poteri garantito dalla Costituzione americana conferisce all’esecutivo l’autorità sulla politica estera, unica titolata a riconoscere la sovranità degli stati esteri. Qualsiasi tentativo da parte del potere legislativo di dare disposizioni al presidente su questioni di politica estera viene visto come una violazione della sua autonomia.

In pratica, tutti i presidenti che si sono succeduti dopo l’approvazione del Jerusalem Embassy Act hanno insistito nell’utilizzare il loro potere esecutivo per sostenere una lettura anacronistica della storia. In base al piano di spartizione approvato dalle Nazioni Unite nel 1947, Gerusalemme doveva essere posta sotto controllo o custodia internazionale per un periodo di dieci anni (dopodiché la sua sorte sarebbe stata definita con un referendum fra i suoi abitanti che, per inciso, sono in maggioranza ebrei sin dalla metà del XIX secolo). Israele accettò il piano di spartizione dell’Onu, mentre palestinesi e paesi arabi confinanti lo respinsero proclamando apertamente che si sarebbero opposti con la forza alla sua attuazione. Scatenarono infatti una guerra d’aggressione per annientare sul nascere lo stato ebraico. Ma fallirono. Israele difese Gerusalemme e la parti della città rimaste sotto controllo israeliano dopo la guerra di indipendenza vennero delineate dalla linea di armistizio del 1949, detta Linea Verde. Tali aree comprendevano grande parte della città, che Israele elesse a propria capitale (mentre nella parte vecchia, a est, occupata dalla Legione Araba e mai eletta capitale né dai giordani né dai palestinesi, venivano conculcati i più elementari diritti degli ebrei).

Ma gli Stati Uniti e quasi tutti gli altri paesi del mondo non vollero riconoscere la sovranità di Israele su una qualunque parte di Gerusalemme e di conseguenza la politica ufficiale di questi paesi, Stati Uniti in testa, rimase quella di considerare tutte le parti di Gerusalemme come “illegalmente occupate” da Israele.

Cittadini ebrei e arabi acquistano materiale scolastico in un negozio del centro di Gerusalemme

Le amministrazioni americane si sono puntigliosamente attenute a questa politica anacronistica, anche nei casi più estremi. Proprio il mese scorso, aderendo in modo maniacale e persino imbarazzante alle minuzie del protocollo diplomatico, la trascrizione ufficiale dell’elogio funebre di Shimon Peres pronunciata dal presidente Obama è stata modificata in modo da riflettere la posizione secondo cui Gerusalemme dovrebbe essere teoricamente sotto custodia internazionale, e non parte della stato ebraico. La trascrizione inizialmente diffusa della cerimonia funebre indicava che si era tenuta a “Gerusalemme, Israele”, ma sei ore più tardi la Casa Bianca diffondeva una versione corretta dalla quale la parola “Israele” era stata bruscamente cancellata. Il Dipartimento di stato americano si spinge fino a questi estremi nell’illusione di non provocare il mondo arabo e musulmano. Ma il passato insegna che cedere agli estremisti che rifiutano di riconoscere la sovranità di Israele in qualunque parte di Gerusalemme non fa che incoraggiare comportamenti ancora più estremisti, perché dimostra loro che intimidazioni e minacce funzionano.

In realtà basta passeggiare per Gerusalemme – una città che solo dopo la sua riunificazione sotto governo israeliano si è sviluppata ed è rifiorita oltre ogni possibile aspettativa a vantaggio di tutti i suoi abitanti sia ebrei che arabi – per rendersi immediatamente conto della pura assurdità della posizione occidentale e americana. Mediate negoziati diretti, prima o poi israeliani e palestinesi riusciranno a definire i confini definitivi fra di loro. Ma indipendentemente da quale sarà l’esito di quella trattativa, certamente Gerusalemme resterà la capitale di Israele. La politica americana e occidentale dovrebbe riflettere questo semplice dato di fatto e di diritto.

(Da: Jerusalem Post, 10.11.16)