Gerusalemme vs Tel Aviv: l’eterno, appassionante dibattito sull’archeologia biblica in Israele

"La Bibbia è una fonte storica, non occorre credere o non credere, occorre verificarla. E’ il bello della ricerca: se pensi a priori che sia tutto falso, diventa teologia esattamente come credere che sia tutto vero"

Di Rossella Tercatin

Rossella Tercatin, autrice di questo articolo

Nel 1993 gli archeologi che lavoravano nel sito di Tel Dan, nel nord di Israele, portarono alla luce un’iscrizione in aramaico su una stele di pietra. Una volta decifrata, la scritta rivelò qualcosa di assolutamente unico: il primo riferimento archeologico al re biblico Davide.

La questione della storicità del monarca era stata dibattuta dagli studiosi per decenni, nel contesto della querelle se la Bibbia possa essere considerata una fonte storica e su quale ruolo debba svolgere negli studi archeologici in Terra d’Israele. A partire dai primi archeologi europei che si recarono in Medio Oriente per esplorare la Terra Santa nel XIX secolo fino ad oggi, la disputa non è mai cessata.

Da una parte vi sono i “minimalisti” irriducibili, studiosi biblici di diverse scuole di pensiero europee emerse dall’inizio del XX secolo. Il più recente di questi gruppi è noto come la Scuola di Copenaghen, i cui esponenti ritengono che la Bibbia sia stata scritta in periodo persiano o addirittura in epoca ellenistica, tra il V e il II secolo a.e.v., quindi troppo tardi per offrire informazioni rilevanti sugli eventi dei secoli precedenti.

La scritta “Casa di David” sulla Stele di Tel Dan (IX sec. a.e.v.)

Dall’altra ci sono quelli che prendono la Bibbia alla lettera, spesso come conseguenza delle loro credenze religiose. Molti di questi studiosi sono associati a gruppi religiosi all’estero, specialmente alla comunità cristiana evangelica in America. Tra loro figurava il leggendario archeologo William Foxwell Albright.

Albright sbarcò in Israele negli anni ’20 del secolo scorso con la missione di scoprire le tracce della Bibbia e quindi smentire quegli intellettuali in Europa, e soprattutto in Germania, che ne respingevano la storicità. L’enorme influenza esercitata da Albright, derivante anche dalla sua capacità di combinare conoscenze in molte discipline come gli studi biblici e le lingue del vicino oriente, viene ampiamente riconosciuta anche da quegli studiosi – la maggioranza – che oggi sottolineano quanto la sua ricerca non possa tuttavia essere considerata scientificamente solida.

A un secolo di distanza, la disputa sulla storicità del testo biblico e sulla sua capacità di offrire spunti di conoscenza all’archeologia dell’epoca biblica si presenta con una gamma di posizioni assai più ampia e più articolata, lasciando in minoranza i due approcci estremi, con le loro implicazioni ideologiche che vanno ben oltre i confini dell’archeologia andando a toccare profonde questioni politiche e teologiche, inclusa la visione che si ha del legame tra il popolo ebraico e la Terra d’Israele.

Da alcuni decenni il dibattito ruota attorno al ruolo di alcuni personaggi biblici, all’accuratezza della raffigurazione dei regni di Israele e di Giuda e alla possibile connessione tra i reperti archeologici e i siti descritti nella Bibbia, nonché a questioni relative alla datazione della composizione del testo stesso. Per la cronaca, la discussione accademica è diventata a tratti molto aspra, al punto da rompere amicizie e provocare pubblici scambi di insulti tra le voci più eminenti dei vari campi.

Israel Finkelstein, professore emerito all’Università di Tel Aviv

Forse non sorprende che due bastioni della disputa trovino attualmente sede nei due centri “amici/rivali” del mondo accademico israeliano, l’Università di Tel Aviv e l’Università di Gerusalemme, e in due dei loro più insigni studiosi, che hanno oltretutto cognomi curiosamente simili: Israel Finkelstein e Yosef Garfinkel.

Finkelstein, professore emerito all’Università di Tel Aviv, lavora da decenni nel campo dell’archeologia biblica. Nel corso degli anni ha ripetutamente messo in dubbio l’interpretazione delle scoperte che i suoi colleghi ricercatori ritenevano suffragare le Scritture, oltre a mettere in discussione la cronologia stessa degli eventi descritti nel testo. Tuttavia, parlando al Jerusalem Post Magazine respinge totalmente la reputazione di studioso che trascura la Bibbia, affermando che la considera il testo fondamentale della sua cultura in quanto ebreo, israeliano e membro della civiltà occidentale. “Rispetto la Bibbia più di chiunque altro, poiché la conosco meglio di tanti – dice – Tuttavia, sono lungi dal leggerla in modo letterale e ingenuo. A mio parere, accostarsi alla Bibbia con rispetto significa scavare a fondo nelle sfumature dell’ideologia, della teologia, dei problemi, dei bisogni e degli obiettivi di cui essa è frutto. Qualsiasi altro approccio è ridicolo”. A condizione che venga interpretata correttamente, aggiunge Finkelstein, la Bibbia è uno dei tre strumenti essenziali nelle mani degli archeologi biblici, insieme ai ritrovamenti archeologici stessi e ai documenti delle antiche popolazioni del Vicino Oriente come gli egizi, i babilonesi e soprattutto gli assiri, i cui annali sono essenziali per formulare la cronologia dei re ebrei.

Una delle tesi principali che Finkelstein propone è che la Bibbia sia un prodotto culturale del regno di Giosia, che regnò su Giuda nel VII secolo a.e.v. Secondo il professore di Tel Aviv, la figura di Giosia è la chiave per rispondere alla domanda sull’effettiva esistenza della “Monarchia Unita”, il regno unico che comprendeva sia Israele (a nord) che Giuda (a sud) come un’età dell’oro della Terra Promessa, e che rimane una delle questioni più scottanti nel dibattito da almeno vent’anni. Nel testo biblico, i potenti governanti di questo regno furono Davide e Salomone. Mentre un tempo alcuni studiosi dubitavano persino che i due fossero personaggi storici reali, Finkelstein si dice convinto che siano esistiti davvero, e tuttavia propone una versione alternativa della storia sottolineando che, a suo parere, checché ne dicano altri archeologi, non è emersa nessuna prova archeologica dell’esistenza di un grande regno a Gerusalemme e dintorni alla loro epoca, cioè nel X secolo a.e.v. “Davide e Salomone – spiega Finkelstein – governavano su un piccolo territorio nelle colline della Giudea, e non su un impero. La descrizione di una grande monarchia unita deriva dalle esigenze ideologiche dell’autore nel successivo regno di Giuda. Giosia viene descritto nella Bibbia come il re più giusto. La mia opinione è che l’idea originaria di una monarchia unita sia derivata da una tradizione specifica di un re che governava insieme su Israele e Giuda. Tuttavia, quel re non era un re di Gerusalemme originario del regno di Giuda, bensì un re samaritano originario del regno di Israele, che nel IX e VIII secolo era molto più potente. Dopo la caduta del regno di Israele sotto gli assiri nell’VIII secolo, questa tradizione si fece strada in Giuda e da lì nel testo biblico, modificata e adattata in modo da soddisfare le esigenze degli autori di Giudea”.

Yosef Garfinkel, professore dell’Università di Gerusalemme

Dal canto suo Garfinkel, professore di archeologia preistorica e del periodo biblico presso l’Università di Gerusalemme, è colui che ha portato nel dibattito su esistenza e caratteristiche del regno di Davide una delle scoperte più recenti e cruciali. Nel 2007 ha scoperto una città fortificata nel sito di Khirbet Qeiyafa, circa 30 chilometri a sud-ovest di Gerusalemme. I reperti portati alla luce nell’area offrono contro-argomentazioni su molti dei punti sollevati da coloro che sostengono che nel territorio di Giuda, nel X secolo, non c’era nulla che somigliasse a un regno. “Ritengo che l’approccio minimalista all’archeologia biblica si sia espresso in tre periodi – spiega Garfinkel a Jerusalem Post Magazine – Il primo fu quello che chiamo del ‘paradigma mitologico’: Davide e Salomone non sono mai esistiti, era tutto un mito”. Lo studioso sottolinea che questa idea è bruscamente tramontata con la scoperta del 1993 che ha portato la prova scientifica che Davide era in realtà una figura storica. “In seguito è emerso quello che chiamo il ‘paradigma cronologico’. Sosteneva che sì, è esistito qualcuno di nome Davide, ma non c’era nessun regno, nessuna amministrazione, nessuna scrittura, nessun esercito, nessuna città fortificata. E suggeriva che il primo regno fosse quello di Israele in Samaria, mentre Giuda lo sarebbe diventato solo alla fine dell’VIII secolo a.e.v”. Secondo Garfinkel, questo particolare momento cronologico venne scelto dagli studiosi che sostengono questa teoria perché a quella data l’esistenza di Giuda risulta menzionata in fonti extra-bibliche, e in particolare nei documenti assiri. “Vi sono coloro che pensano che la storia d’Israele debba essere scritta facendo esclusivamente affidamento su fonti esterne alla Bibbia – continua Garfinkel – Il ponderoso dibattito all’interno del paradigma cronologico si è concentrato su quando ebbe inizio l’urbanizzazione in Giuda e quando Giuda divenne un regno. Ma Khirbet Qeiyafa, con le sue fortificazioni, le iscrizioni, gli edifici pubblici e tutto ciò che ti aspetti di trovare in un solido centro urbano, ha cambiato totalmente il quadro”. Il team di Garfinkel è riuscito a identificare materiali sufficienti per circa 30 test col carbonio-14 e i risultati hanno confermato che la città risaliva a circa il 1000 a.e.v, cioè ai tempi di Davide. “Questo segnò l’inizio della terza fase dell’approccio minimalista: il paradigma etnografico – continua il professore di Gerusalemme – Subito dopo la nostra scoperta, hanno iniziato a discutere se il sito fosse giudeo, filisteo, cananeo o israelita”. Garfinkel sottolinea che vi sono diversi argomenti a sostegno dell’affiliazione di Khirbet Qeiyafa con Giuda. Ad esempio, fra le migliaia di ossa di animali trovate non sono stati identificati resti di maiale, contrariamente a quanto accade comunemente nei siti filistei presso i quali il maiale rappresentava una parte sostanziale della dieta. Anche la pianificazione urbana presenta somiglianze con altri insediamenti della Giudea. Non basta. Nel sito è stata portata alla luce un’iscrizione ebraica, nonché due “modelli di santuario” che presentano analogie con le descrizioni bibliche del Tempio costruito da Salomone.

Il sito archeologico di Khirbet Qeiyafa

“Se qualcuno mi chiedesse se ho avvalorato la Bibbia, risponderei che io non sto avvalorando la Bibbia, la sto testando – chiarisce Garfinkel – La Bibbia è una fonte storica, non ho bisogno di credere o non credere, ho bisogno di verificarla. A mio modo di vedere, nell’archeologia biblica vi sono alcuni che considerano la tradizione biblica come storia al 100% e altri che sono semplicemente convinti che nulla di quanto scritto nella Bibbia possa essere vero. Io non ho preconcetti. Ad esempio, a Khirbet Qeiyafa abbiamo anche smentito una tradizione biblica: i nostri risultati suggeriscono che, contrariamente a quanto detto nella Bibbia, i giudei conoscevano molto bene l’uso del ferro”. Il professore sottolinea che, per arrivare alle sue conclusioni, utilizza metodi rigorosamente scientifici. “Ogni data che suggerisco si basa su radiocarbonio, analisi iconografiche, analisi dei reperti archeologici. Questo è l’unico modo per avvalorare o confutare una tradizione biblica. E’ il bello della ricerca: se pensi che sia tutto falso, diventa teologia esattamente come se credi che sia tutto vero”.

Parlando a Jerusalem Post Magazine, Finkelstein riconosce l’importanza del ritrovamento di Khirbet Qeiyafa, ma respinge l’idea che abbia necessariamente rappresentato un punto di svolta e insiste che, sebbene sia effettivamente possibile che il sito fosse di Giuda, è anche possibile che fosse di Israele.

Alla domanda se gli spettacolari cambiamenti che l’archeologia sta conoscendo con l’applicazione delle tecnologie delle scienze della vita avranno in futuro un impatto sul dibattito circa il ruolo della Bibbia, i due studiosi offrono punti di vista diversi. Secondo Garfinkel, sebbene procedure come la datazione al radiocarbonio o l’analisi del DNA abbiano aperto nuovi orizzonti, non saranno mai sufficienti per persuadere le persone che hanno deciso in partenza di credere o non credere a certe nozioni. Finkelstein, invece, esprime la fiducia che già nei prossimi cinque anni molte questioni saranno effettivamente chiarite. Entrambi tuttavia riconoscono come, in fin dei conti, l’archeologia rimanga una disciplina in cui l’interpretazione è cruciale, e in molti casi è difficile trovare risposte definitive, e può sempre accadere che già domani una clamorosa scoperta sul campo cambi ancora una volta radicalmente i termini del dibattito. “Se guardiamo Khirbet Qeiyafa, che credo davvero sia un sito molto importante risalente al X secolo a.e.v. – osserva Finkelstein – la domanda successiva è: e allora? Cosa ci dice del regno di Giuda, della Monarchia Unita e della stesura della Bibbia? Rimane essenziale la questione di cosa fai con le nuove scoperte e di come le vedi, combinando fra loro i vari elementi di prova”. “I reperti archeologici e i dati che raccogliamo – conclude Garfinkel – sono come le tessere di un mosaico disfatto. La questione è come metterli insieme per ricreare l’immagine. Ed è il motivo per cui questa disciplina fa parte delle scienze umanistiche”.

(Da: Jerusalem Post, 2.8.20)