Gli Accordi di Abramo dimostrano che la forza di Israele non è solo militare ma anche economica, tecnologica e scientifica

Il pragmatismo che caratterizza gli accordi di normalizzazione fra Israele e paesi arabi è un punto di forza, non di debolezza come vorrebbe far credere un fasullo romanticismo diplomatico

Di Doron Matza

Doron Matza, autore di questo articolo

Gli accordi di pace tra Israele e Marocco, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Sudan hanno suscitato molti commenti su ciò che questi paesi si aspettano di ottenere in cambio della normalizzazione con Israele: il riconoscimento americano della sovranità marocchina sul Sahara occidentale, moderni jet da combattimento per gli stati del Golfo, la rimozione del Sudan dalla lista americana degli stati sponsor del terrorismo. Per sminuirli e farli sembrare meno importanti, gli Accordi di Abramo vengono descritti come un mero espediente opportunistico, cosa che a quanto pare esclude il concetto di “pace” e certamente non rispecchia un’idea di relazioni diplomatiche fondate su profondi valori condivisi e su una partnership autenticamente disinteressata.

Ma questa è una visione ingenua della politica internazionale e degli accordi diplomatici. Il periodo attuale è contrassegnato da un realismo freddo e calcolatore, che in larga misura ha soppiantato l’aspirazione a creare un mondo basato su valori comuni. In ogni caso, i trattati di pace sono sempre accompagnati da un bagaglio di realpolitick e un incontro di interessi. Il che ovviamente vale anche per il Medio Oriente.

Il trattato di pace tra Israele ed Egitto rimane un trattato sottoscritto tra i leader più che tra i due popoli, e il Cairo ne ha tratto vantaggi molto concreti come armi moderne e consistenti aiuti economici americani. Lo stesso vale per l’accordo di pace tra Israele e Giordania, e ancor di più per i vari accordi firmati con i palestinesi che avevano ben poco a che fare con l’amore fraterno e molto con la strategia, anche se quest’ultima si è poi rivelata sopravvalutata. La romantica fantasia diplomatica dell’Europa circa trattati che brillano di valori condivisi, imperniarti sulla volontà di fare la pace per sempre, non è mai stata la vera matrice dei trattati di pace tra Israele e i suoi vicini, anche se si è cercato di smerciarli in quel modo.

Un israeliano si fotografa a Dubai insieme a due cittadini degli Emirati Arabi Uniti

Ciò che realmente emerge dal pragmatico utilitarismo che caratterizza gli Accordi di Abramo è la precisa consapevolezza dello status attuale di Israele, che sta diventando un paese da tenere in considerazione in tutti i sensi. Israele ha sempre dato prova di sé nel settore della difesa, fino ad essere visto come un potente attore nella regione. Ma le nazioni potenti non si misurano solo dalla loro forza militare, bensì anche dalla loro capacità di sincronizzare altri punti di forza: economici, tecnologici e scientifici. Negli ultimi decenni Israele è diventato questo tipo di potenza regionale, un paese che vanta aree di forza anche al di là del campo della difesa e della sicurezza.

Israele gestisce le questioni di sicurezza poste da Hamas nella striscia di Gaza, da Hezbollah in Libano e dall’Iran in Siria come attività di sicurezza sempre attive senza permettere loro di tradursi in una minaccia effettiva, e al contempo investe pesantemente anche in altri settori sulla base dei quali viene misurata la sua potenza. In quest’ultima generazione, Israele è diventato uno stato in prima linea nel progresso tecnologico, uno stato che gode di una sua profondità strategica e di proprie fonti di energia. Tutto ciò conferisce a Israele un valore aggiunto agli occhi dei paesi che lo circondano. Chiarito questo, si può capire la mossa del Sudan, frutto del riconoscimento dei vantaggi che può offrire Israele nell’agricoltura e nella tecnologia. Il Marocco ha preso atto del peso diplomatico di Israele a Washington, e gli stati del Golfo hanno identificato i suoi punti di forza economici. Da questo punto di vista, è più corretto considerare l’utilitarismo insito negli Accordi di Abramo non come un punto debole, ma come una cartina di tornasole che mostra fin dove è arrivato Israele nel trasformarsi da un problema a un magnete regionale e globale da cui non si può prescindere.

(Da: Israel HaYom, 18.12.20)