Gli ostacoli ereditati da Oslo

Il movimento nazionale palestinese è un soggetto politico o solo un movimento di rivolta?

Da un articolo di Shlomo Ben-Ami

image_664Uno stato palestinese entro confini provvisori è un concetto problematico che si è insinuato nella Road Map attraverso l’eredità di Oslo. Ed è motivo di rifiuto totale dell’idea da parte dei palestinesi. Nei giorni del primo governo Sharon, Shimon Peres effettivamente sfidò la sorte propugnando l’idea di uno “stato provvisorio”. Ma il suo interlocutore, Ahmed Qureia (Abu Ala), pose una condizione: avrebbe accettato uno “stato provvisorio” solo a patto che i confini finali dello stato “definitivo” fossero determinati non in base al vago testo della risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, bensì sulla solida base delle linee del 1967.
La vicenda dell’”accordo” Peres-Qureia è ancora oggi rilevante per quanto concerne l’atteggiamento dell’Autorità Palestinese verso il processo per fasi ereditato da Oslo, e per quanto riguarda la posizione del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) circa la prossima fase della Road Map, all’indomani del disimpegno dalla striscia di Gaza. Abu Mazen, come Abu Ala, respinge totalmente l’idea di uno stato con confini provvisori.
Non c’è nulla che i palestinesi disdegnino di più del processo per fasi verso un vago obiettivo, ereditato da Oslo. Ogni tentativo israeliano di costringerli di nuovo nell’infinito e fumoso labirinto di Oslo non potrà che fallire. Fatta l’esperienza degli ostacoli sorti sulla strada Oslo, essi considerano i confini provvisori proposti nella Road Map come una trappola volta a trasformare il profondo e complicato conflitto fra noi e loro in una banale disputa di confine che può durare per anni, nella quale Israele potrebbe tornare a creare fatti compiuti sul terreno come ha effettivamente fatto durante il periodo ad interm di Oslo… È dalla delusione di Oslo e dalla consapevolezza degli ostacoli insiti nella cultura politica israeliana che Abu Mazen trae la sua inequivocabile richiesta alla comunità internazionale di passare direttamente, dopo Gaza, all’accordo sullo status definitivo. Se vi sarà una disponibilità palestinese per uno stato provvisorio, sarà solo dopo che saranno stati definiti i suoi confini definitivi.
Al cuore del dibattito sui prossimi passi nel processo politico all’indomani del disimpegno dalla striscia di Gaza, e delle discussioni sulle chance che ha l’idea di uno “stato provvisorio” sta una cruciale questione di principio: il movimento nazionale palestinese è un soggetto politico oppure è rimasto soltanto un movimento di rivolta? La creazione dell’Autorità Palestinese ha o non ha spinto ai margini la dimensione sovversiva del movimento nazionale palestinese a vantaggio di una cultura della responsabilità politica e della risoluzione del conflitto (compreso l’esplicito conflitto sui valori portanti della nazione palestinese) soltanto attraverso il negoziato?
Uno stato, anche quando è una dittatura infettata dal terrorismo come ad esempio la Siria, non cede facilmente alla tentazione di far saltare tutte le regole nei rapporti con i suoi vicini. La Siria era ed è ancora interessata a non infrangere le regole. Esiste un analogo interesse intrinseco palestinese di non far saltare tutte le regole nel caso di insuccesso del negoziato? La risposta è no.
Il più grande miraggio del processo di Oslo fu la supposizione che l’establishment di una autorità politica palestinese avrebbe permesso di tenere un dialogo bilaterale civile sullo status definitivo senza cedere alla tentazione di far saltare le regole. Quel presupposto è andato in frantumi con la [seconda] intifada. L’Autorità politica nata da Oslo non esitò a mobilitare l’ethos sovversivo del movimento nazionale palestinese in una lotta senza quartiere contro Israele, non appena apparve chiaro che i suoi obiettivi nazionali non venivano soddisfatti…
Il trauma del disimpegno da Gaza lacererà la società israeliana senza risolvere nulla se non porremo fine al discorso su “barriere”, “disimpegno” e “unilateralismo”. Come hanno dimostrato i rapporti con Libano, Giordania ed Egitto, Israele non otterrà nessuna sicurezza più solida di quella che può essere garantita da un confine internazionale riconosciuto. Una barriera, se proprio si insiste, può essere un complemento, forse anche un complemento vitale, ma non la cosa in se stessa.

(Shlomo Ben-Ami, ministro laburista nel 1999, su: Ha’aretz, 17.03.05)

Nella foto in alto: l’autore dell’articolo