Gli standard morali delle forze israeliane

Una questione troppo importante per lasciarla nella mani di attivisti con la sentenza già in tasca

Da un articolo di Herb Keinon

image_2444“Tutti ce l´hanno con noi, e allora noi ci uniamo al coro”: è un’antica battuta ebraica che torna in mente vedendo i titoli della stampa ebraica di giovedì scorso sulla testimonianza resa il mese scorso al corso preparatorio pre-militare “Yitzhak Rabin” dell’Oranim Academic College di Kiryat Tivon da alcuni soldati che hanno partecipato alla recente controffensiva anti-Hamas nella striscia di Gaza. Dani Zamir, il direttore del corso, ha pubblicato i testi di quelle conversazioni su un bollettino che viene inviato a tutti gli ex-allievi.
Stando al racconto di alcuni soldati che hanno presenziato a quella che appare come una sessione di terapia di gruppo dove dar voce a traumatizzanti esperienze di guerra, tre soldati avrebbero riferito alcuni episodi in cui dei civili palestinesi sarebbero stati uccisi dal fuoco di un cecchino e in cui beni palestinesi sarebbero stati deliberatamente distrutti.
Giovedì l’avvocatura generale delle Forze di Difesa israeliane ha dato disposizione alla Divisione per le indagini penali della polizia militare di aprire un’inchiesta sui fatti riferiti dai tre soldati e, anche se qualcuno non esiterà a screditare tale inchiesta come una semplice foglia di fico per il resto del mondo, in realtà non è così. La reazione del ministro della difesa Ehud Barak è stata significativa: “Il nostro esercito ha standard morali tra più alti al mondo – ha ribadito – anche se naturalmente possono sempre capitare delle eccezioni, e l’importante è che vengano fuori e vengano indagate caso per caso”.
I detrattori di Israele in giro per il mondo si facciano pure beffe di questa affermazione. Noi israeliani la prendiamo invece molto sul serio, e per noi è estremamente importante continuare a prenderla sul serio. Questo paese combatte non perché voglia farlo, ma perché è costretto. E dal momento che lo deve fare, è cruciale che gli israeliani siano certi della moralità della loro causa. L’idea di un esercito ad alto standard etico non è importante per la nostra “immagine nel mondo”; è importante per la nostra immagine davanti a noi stessi. Israele è un paese che esige enormi sacrifici dai suoi cittadini, e i cittadini saranno disposti ad affrontare tali sacrifici solo se sanno che si sacrificano per una causa giusta e retta. Se l’esercito si comportasse in modo immorale, taglierebbe il ramo su cui si regge e dissuaderebbe proprio le persone migliori dal servire nelle forze armate o dal mandarvi i loro figli.
I titoli di giovedì scorso, immediatamente ripresi dai servizi d’agenzia e rilanciati in tutto il mondo, erano del tipo “Le Forze di Difesa israeliane hanno ucciso civili a Gaza in base a regole di ingaggio troppo permissive” e “I soldati che hanno combattuto a Gaza raccontano di uccisioni a sangue freddo”. Ovviamente tutti coloro che all’estero desiderano mettere Israele come tale sul banco degli imputati di crimini di guerra balzeranno su queste notizie, e le innumerevoli ong anti-israeliane le diffonderanno come ulteriore prova della malvagità di Israele.
Quello che manca, in tutto questo, è un minimo di contesto.
Innanzitutto questo tipo di testimonianze non sono nulla di nuovo, in Israele, dove costituiscono anzi una ricorrenza tradizionale: c’è persino una locuzione in ebraico per indicarle (yorim ve’bochim, sparare e versare lacrime). Il più famoso libro di questo genere, Siach Lochamim, uscì subito dopo la Guerra dei sei giorni del 1967 e venne tradotto pochi anni dopo col titolo “Il settimo giorno”. I racconti fatti al corso “Rabin” presentano un ‘atmosfera molto simile: soldati che parlano delle loro esperienze di guerra, di ciò che hanno visto, che hanno sentito, di quello che gli è sembrato giusto e di quello che non gli è sembrato giusto.
È importante sottolineare che nessuna delle testimonianze citate si riferisce a qualcosa che i soldati dicono d’aver fatto in prima persona, ma sempre a qualcosa che dicono d’aver sentito o visto fare da altri soldati. Ed è importante che i racconti riportati sembrano cadere sotto la fattispecie delle aberrazioni ad opera di singoli individui durante una guerra contro un nemico spietato che si nasconde dietro i civili, e non come una sistematica perdita da parte dell’esercito della sua bussola morale.
Il secondo elemento di contesto è Dani Zamir, il direttore del corso, che ha trascritto e pubblicato le parole dei soldati. L’articolo su Ha’aretz di giovedì scorso ricorda che nel 1990 Zamir, allora comandante di una compagnia di paracadutisti della riserva, venne processato e condannato per essersi rifiutato di garantire protezione a una cerimonia durante la quale degli israeliani “di destra” portavano i Rotoli della Torah nella Tomba di Giuseppe a Nablus (Cisgiordania). Zamir, in un’intervista di giovedì a Israel Radio, afferma che i soldati dell’operazione anti-Hamas con cui ha parlato durante l’incontro riflettevano un’atmosfera all’interno dell’esercito di “disprezzo per i palestinesi”. È lo stesso Zamir che compare in un libro del 2004 intitolato “Refusnik: i soldati di coscienza israeliani”, redatto da Peretz Kidron e con una prefazione di Susan Sontag. Il libro, che si guadagnò l’encomio nientemeno che di Noam Chomsky, comprendeva un capitolo a firma di Zamir, descritto come “un ufficiale della riserva originario del kibbutz Ayelet Hashahar condannato a 28 giorni per essersi rifiutato di servire a Nablus, ora a capo del seminario preparatorio del movimento kibbutzistico per i giovani alla vigilia del loro arruolamento nelle forze armate”.
“Con stupida determinazione e col compiacimento dei sapientoni – scriveva Zamir –predicatori primitivi e nazionalisti sfegatati ci stanno ingannando e conducendo alla catastrofe, mentre Pompei si dedica a banchetti e incontri sportivi alla vigilia del disastro: vedo un vulcano nella terra dove un terzo degli abitanti (nei territori occupati) non può votare, sotto un sistema di giustizia militare che è una farsa. Collaborare con un regime che mi ordina di far parte di un apparato antidemocratico che porta all’autodistruzione, alla disintegrazione e alla decadenza nazionale, è illegittimo, ingiusto e immorale, e resterà tale finché lo stato non adotterà una delle due sole possibile opzioni: annettere i territori conquistati nel 1967 garantendo pieni diritti a coloro che vi abitano, oppure ritirarsi, affrancandoci dalla responsabilità verso coloro che vi abitano, che sceglieranno per loro conto il regime che preferiscono”.
Questo è ciò che Zamir scriveva nel 1990, ristampato nel libro del 2004. Le testimonianze dei soldati che ha portato all’attenzione pubblica sembrano fatte apposta per corroborare – ma guarda la coincidenza – proprio quelle sue tesi.

(Da: Jerusalem Post, 20.03.09)