Governo di coalizione Hamas-Fatah

Ben poco di nuovo sotto il sole

M. Paganoni per NES n. 3, anno 19 - marzo 2007

image_1630Il governo palestinese di coalizione Hamas-Fatah varato il 17 marzo 2007 ha due scopi. Primo, cercare di ricomporre la grave frattura fra fazioni palestinesi già degenerata in sanguinose violenze. Secondo, cercare di spezzare l’embargo internazionale sugli aiuti all’Autorità Palestinese (quelli diretti, giacché gli aiuti trasferiti ai palestinesi per canali indiretti non sono stati bloccati ed anzi nel 2006 sono raddoppiati rispetto all’anno precedente). Sono entrambi obiettivi importanti e perfettamente comprensibili, dal punto di vista palestinese. Ma da questo a dire che il nuovo governo palestinese costituisca un passo avanti verso Israele e la pace ce ne passa. Al contrario, il portavoce del ministero degli esteri israeliano Mark Regev non esita a definirlo un grave passo indietro.
Inquieta innanzitutto la piattaforma politica del nuovo governo, che si fa quasi beffe dei principi indicati dal Quartetto Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Onu, e cioè: riconoscimento del diritto ad esistere dello Stato di Israele, ripudio del terrorismo e della violenza, rispetto e applicazione degli accordi già firmati con Israele.
Il programma del governo palestinese parla invece di “legittimo diritto alla lotta armata”, con buona pace di tutti gli impegni presi e ribaditi dalla parte palestinese a partire dal primo scambio di lettere fra Yasser Arafat e Yitzchak Rabin il 9 settembre 1993, fino alla Road Map firmata da Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e Ariel Sharon il 4 giugno 2003. Nel presentare il governo, il primo ministro palestinese Ismail Haniyeh ha parlato addirittura di “resistenza armata in tutte le sue forme”: una locuzione che, sulle labbra di un leader di Hamas, sappiamo fin troppo bene cosa possa significare. A questo punto non stupisce che, a proposito del soldato israeliano Gilad Shalit sequestrato su suolo israeliano nel giugno scorso e da allora tenuto in ostaggio da terroristi palestinesi nella striscia di Gaza, il nuovo governo palestinese dica che “si adopererà per risolvere la questione nel quadro di un onorevole scambio di prigionieri”: cioè, facendosi portavoce delle richieste dei terroristi sequestratori.
Nel programma palestinese non compare alcun riconoscimento dello Stato di Israele. Anzi, Israele compare solo come lo stato “occupante” o “aggressore”. E non v’è traccia della soluzione due popoli-due stati, al posto della quale viene invece ribadito l’obiettivo di “liberare la terra palestinese”: ed anche qui, basta guardare le mappe della propaganda palestinese per sapere cosa si intende. Tanto è vero che il programma impegna il governo a battersi “per il diritto al ritorno dei profughi palestinesi nelle loro terre e nelle loro proprietà”: cioè per quel “ritorno” dei profughi e loro discendenti all’interno di Israele che, come ha detto Shimon Peres, “significa una cosa sola, la trasformazione di Israele in uno stato palestinese”.
Un’altra clausola della piattaforma rifiuta categoricamente l’idea di uno stato palestinese entro confini provvisori, una formula che è invece espressamente prevista dalla Fase Due della Road Map. E tanto potrebbe bastare per quel che riguarda il rispetto degli accordi già firmati.
Abu Mazen viene sì autorizzato a negoziare con Israele per conseguire non meglio precisati “obiettivi nazionali palestinesi”, ma sotto la spada di Damocle di un voto del Consiglio Nazionale Palestinese (il “parlamento in esilio” di tutte le fazioni armate palestinesi) o di un referendum fra tutti i palestinesi, compresi quelli che vivono nei campi sotto controllo dei paesi arabi.
Secondo Uzi Arad, fondatore dell’Institute for Policy and Strategy di Herzliya, pur di evitare una guerra civile Abu Mazen si è di fatto appiattito sulle posizioni di Hamas, che con questo governo marca un importante successo. “Da quando è salita al potere all’indomani del disimpegno israeliano dalla striscia di Gaza – ha scritto su Yiediot Ahronoth (18.03.07) – Hamas ha potuto continuare a rafforzare la sua forza militare, a consolidare il suo potere sul terreno, e ora si appresta a raccogliere frutti a livello politico e internazionale senza aver modificato le proprie posizioni”.
“Hamas – ha notato Avi Issacharoff (Ha’aretz, 18.03.07) – ha conservato il controllo sul governo. Respinta l’idea di tenere elezioni anticipate, scomparsa l’idea di un referendum sul documento dei detenuti, già compaiono le prime crepe nell’assedio diplomatico, mentre Hamas non ha cambiato nulla di sostanziale della sua ideologia: no al riconoscimento dello Stato di Israele, no ai negoziati (il lavoro sporco viene lasciato ad Abu Mazen), sì alla resistenza cioè alla violenza”.

Nella foto in alto: Il passaporto simbolico dello “Stato di Palestina” rilasciato dall’associazione palestinese per il “diritto al ritorno” Al-Awda (Israele è cancellato). Chi lo acquista – dice il sito di Al-Awda (http://www.al-awdany.org/passport/index.html ) – sottoscrive un “giuramento” in cui si afferma che “il Libero Stato di Palestina corrisponde alla terra che si estende dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, da Naqura ad Aqaba, e che appartiene al popolo palestinese”, e si afferma che “tutti i palestinesi hanno il diritto di tornare alla loro terra”.