Haim Beer

image_1215Haim Be’er è nato a Gerusalemme nel 1945 dove è cresciuto in una famiglia ortodossa. Dopo aver prestato servizio come rabbino militare, lavora come correttore di bozze nella casa editrice Am Oved fino a diventarne membro del comitato editoriale. Poeta e romanziere, per le sue opere ha ricevuto i prestigiosi premi Bialik e Bernstein. Questo è il suo primo libro pubblicato in Italia.

LACCI D’AMORE
In questo appassionante romanzo autobiografico, Be’er porta alla luce i segreti, i tabù e le inconfessate sofferenze della sua famiglia. Una madre ossessivamente protettiva e ambiziosa nei suoi confronti e un padre frustrato e debole che trova il suo unico conforto nel canto sinagogale costituiscono il nido nel quale cresce e si forma il giovane Be’er. È Batei-Ungarin, il quartiere ortodosso di Gerusalemme, a fare da sfondo al viaggio interiore dell’autore, che analizza senza compromessi i complessi rapporti con i genitori. Ma Be’er ripercorre anche il lento processo che lo porterà a maturare la consapevolezza, il mestiere e la sensibilità di scrittore. E proprio nella scrittura, come una forma di autoanalisi, Be’er trova il modo di sottrarsi al soffocante giogo familiare che lo ha condizionato così profondamente durante la sua infanzia e adolescenza, le quali rivivono, splendidamente narrate, in questo importante romanzo.

IL BRANO letto al Convegno dell’Università di Milano

Poco prima della gita annuale in Galilea, la mamma venne convocata urgentemente nell’ufficio dell’infermiera, e il medico scolastico la informò con un fare grave, accompagnato dallo scuotere della testa della nostra Florence Nightingale locale, che, a causa del soffio al cuore che aveva percepito in un controllo alla fine della settimana, per la mia partecipazione a quella gita di due giorni era obbligato a porre la condizione che fossi accompagnato da un adulto.
Quella brutta notizia avrebbe potuto confinarmi in un letto per tutto il resto della vita se il babbo non mi avesse portato dal dottor Muntner, suo amico di vecchia data, che mi esaminò con estrema cura e decretò che quel ciabattino con lo stetoscopio avrebbe dovuto pulirsi ben bene le orecchie, ma al verdetto da lui emanato non c’era possibilità di fare appello.
Alla riunione d’emergenza tenuta quella stessa mattina, la mamma stabilì che, sfortunatamente, dovevo scegliere tra due mali: o rimanere a casa per quei due giorni e godermi lo stare a letto fino a tardi, andare al cinema durante il giorno e il gelato come dessert, o lasciare che il babbo partecipasse alla gita.
Nei suoi enormi pantaloni color cachi, tirati su fino allo sterno, che fasciavano il suo pancione, il vecchio berretto calcato sul cranio, e lo zaino, un residuato della guerra di Corea che puzzava di gomma e dell’odore di muffa della stiva di una nave, il babbo si presentò con me ai cancelli della scuola il mattino della gita. Sembrava il sosia di Svejk disegnato da Josef Lada. Con mio grande sollievo, i ragazzi si agitavano sugli autobus lottando per i posti, e le ragazze si assiepavano intorno alle insegnanti che, per la prima volta, indossavano i pantaloni, così nessuno fece caso babbo che mantenne la sua promessa di non intromettersi tra i bambini.
Come la mamma aveva previsto, il babbo venne accolto con calore dagli autisti, i fratelli Etik, che frequentavano la nostra sinagoga, e che discussero perfino su quale autobus dovesse salire, e, dalla cabina dell’autista, continuò a lanciarmi occhiate furtive per tutto il viaggio, per assicurarsi che non mi accadesse niente di male.
Venti di burrasca iniziarono a soffiare soltanto alla fine di quella giornata, quando raggiungemmo l’ostello della gioventù di Poriya per il pernottamento. I due fratelli, che volevano riposarsi un po’ dopo il viaggio e il chiasso dei bambini, invitarono il babbo ad andare con loro ad un ristorante che cucinava pesce a Tiberiade, ma egli volle rimanere nel caso fossi stato punto da uno scorpione o una scintilla fosse caduta sui miei vestiti.
Dalla mia postazione intorno al falò vedevo il suo profilo curvo oltre le fiamme che divampavano per poi affievolirsi, mentre se ne stava seduto da solo su un muretto di pietre e tranquillo mangiava i panini che la mamma gli aveva preparato all’alba; di tanto in tanto mordicchiva l’uovo sodo che teneva in mano come un pulcino. Era così triste nella sua completa solitudine ed estraneità di quel momento, circondato dai rovi e dall’alone estivo della luna che sorgeva dietro le nere montagne.
Un’immagine si ripresenta tutte le volte che cerco d’immaginarlo in quei decenni della sua vita avvolti nel mistero, prima che io invadessi il suo mondo: un giovane corre nudo con i suoi amici Aharon Rotblatt e Hillel Friedman sul declivio coperto di nasturzi («Là c’era un tappeto di nasturzi» mi disse una volta una donna nativa della sua stessa città). Scendono giù fino al fiume. Un bel giovanotto va a combattere la guerra russo-giapponese, agghindato con la giubba dell’esercito dello zar, il cappello di pelliccia e una sigaretta all’angolo della bocca. La canzone di un mendicante ucraino lo accompagna al suono della kobza: Nel campo illuminato, nell’ampia distesa il viburno è in fiore. Oh, là una madre va con suo figlio a raggiungere l’esercito! Allora vai, figlio mio! Vai, figlio mio!
Secondo quanto stabilito, il babbo avrebbe dormito con i fratelli Etik, ma dal momento che le chiavi della stanza le avevano loro e non erano ancora tornati, non ebbe altra scelta che stendere le coperte nel dormitorio dei ragazzi e prepararsi a dormire là. Alle undici, l’insegnante di flauto, il signor Gula, ordinò di spegnere le luci e scomparve nella sua stanza, dando così il via all’Angelo della distruzione. Parolacce, barzellette sconce, rutti, scorregge e canzoni oscene si mescolarono assieme in una possente cacofonia. Fasci di luce di torce tascabili, accese di nascosto, danzavano nella stanza come le luci dei riflettori nel Giorno dell’Indipendenza, incrociandosi e scontrandosi, sparendo e riapparendo di nuovo.
Alcune ispezioni a sorpresa di pattuglie d’insegnanti riuscirono finalmente a calmare i ragazzi esausti e «un vento che dà torpore» iniziò a stendersi su di loro. Mi rannicchiai sotto la coperta, implorai il Signore di nostro padre Abramo che il russare del babbo non attirasse l’attenzione di quegli ultimi che rimanevano svegli in attesa del momento giusto per scatenarsi contro i compagni addormentati e tingere le loro facce con il lucido da scarpe o la crema di cioccolata.
A metà della notte, quando le lancette fluorescenti del mio orologio indicavano dieci minuti dopo la mezzanotte, due figure spuntarono dalla tenebra e andarono a stendere le loro mani sopra quelli che erano vinti dal sonno, per perpetrare le loro prodezze tra gli ignari. Gli strilli delle vittime, che furono svegliate dalla sensazione disgustosa del lucido sui loro volti, svegliarono anche gli altri. Di nuovo si accesero le torce e di nuovo il dormitorio gremito si riempì di un incredibile baccano, di grida di battaglia, d’inni di vittoria e dei lamenti degli sconfitti. Anche gli ultimi addormentati si scossero e si risvegliarono e le lampadine furono accese e spente a folle velocità.
In tutta questa confusione il mio cuore fu paralizzato dalla paura alla vista del corpaccione di mio padre. La sua identificazione nel ruolo morale degli insegnanti e dei genitori ebbe la meglio sulla promessa che mi aveva fatto di non interferire; si alzò da letto e si piazzò in piedi nel mezzo della stanza calpestando, mentre avanzava, chi era in ginocchio, chi era disteso e chi prostrato – «Poiché come il Monte Peratzim si ergerà il Signore, come nella valle di Ghiv’on si adirerà, per compiere la Sua opera, la strana Sua opera, e per fare il Suo lavoro, il Suo strano lavoro». Stava là illuminato dalle torce che si accendevano e si spegnevano, con i mutandoni che lasciavano intravedere attraverso la patta l’inguine scuro, e agitava la mano contro il cumulo di rovine e i corpi sbaragliati stesi sul pavimento, un popolo crudele dato in possesso al porcospino e a stagni d’acqua, e pronunciò la sua indimenticabile profezia della valle della visione, che generazioni di studenti appresero e recitarono per molti anni a venire:

Tu la luce spegnerai
Ché doman lavorerai.
No signore, no signora,
Non voglio sentir nulla ora.

E, dopo un attimo di silenzio, concluse il suo rimprovero con due parole eterne: Brutti Bastardi.

IL COMMENTO di Haim Be’er
L’esperienza narrata nel brano che avete appena ascoltato è stata una delle più umilianti che io abbia vissuto da bambino. In presenza di tutti i miei compagni di classe e, cosa ancor più grave, di tutte le mie compagne, mio padre si mostrò in tutta la sua vergogna. Gli anni successivi che trascorsi a scuola si svolsero nell’ombra di questo evento. In qualunque luogo mi trovassi c’era sempre qualcuno che mi ricordava le parole furiose di mio padre, divenute con gli anni una cantilena derisoria. Questo fatto fu indubbiamente l’implicita ragione per cui mi allontanai da chiunque avesse partecipato a quel maledetto viaggio in Galilea e forse anche la ragione per cui ho lasciato Gerusalemme, andando in esilio a Tel Aviv. Molti anni sono passati; sono diventato uno scrittore piuttosto conosciuto, qualcuno che la televisione e la radio interpellano riguardo diverse questioni culturali e sociali. Un giorno, durante una trasmissione in diretta, sedevo in uno studio televisivo, facendomi intervistare da uno dei miei compagni di classe, divenuto nel frattempo un giornalista di valore (oggi è il principale redattore di uno dei tre più importanti quotidiani israeliani). All’improvviso egli abbandonò l’argomento di cui stavamo parlando e cominciò: “Dimmi, Haim, ti ricordi il viaggio in Galilea durante il quale tuo padre ha dato i numeri?”; si voltò quindi verso i presenti e raccontò loro i minimi particolari di ciò che era avvenuto nell’ostello in quella notte maledetta. In quello stesso momento dovevo decidere: offendermi, arrabbiarmi, sentirmi ferito nel profondo della mia anima, o fare una scelta differente. Ho scelto. I fatti che avete appena ascoltato e che ho elevato alla scrittura con onestà e amore, sono nati di nuovo di fronte alla telecamera e ai riflettori, trasformati, da un motivo di vergogna, in una condizione di forza spirituale.

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