Haim Lapid

Peccato di scrittura

image_152Cedere alla tentazione di scrivere.

Di Claudia Rosenzweig

Peccato di scrittura, di Haim Lapid.

Traduzione di M. Rapin-Pesciallo

Marsilio

Esiste un club in Inghilterra i cui membri amano leggere, sono «fanatici dei libri», ma hanno il più assoluto divieto di scrivere. Questo libro racconta la confessione di un peccatore, George Brown, un uomo che, in età avanzata, decide di lasciarsi andare alla tentazione e di scrivere la sua storia a una donna ebrea israeliana incontrata a Londra. Il risultato è una sorta di punizione crudele: la scrittura non rivela niente, non risolve le questioni del passato rimaste irrisolte, non rende giustizia alle ingiustizie della vita, non rimargina le ferite. «Gli scrittori credono di sapere tutto sui loro personaggi; hanno una biografia bella e pronta e un intero guardaroba sottomano persino per quello che appare per un istante, che dice una sola frase. Ecco cosa detesto in loro. Io ho una parte del puzzle, e qualunque cosa Lei farà, alcuni pezzi non si incastreranno in nessun modo e Le rimarranno in mano senza un perché.» [p. 59] Sembra questa la morale di un libro insolito, dove viene misurata l’incapacità della scrittura di raccontare una vita. Per chi ha già letto il giallo minuziosamente costruito di Haim Lapid, Breznitz (trad. di M. Rapin Pesciallo, Marsilio, Venezia 1999), la soluzione del dramma o dell’enigma può essere come uno schiaffo in faccia, un colpo che coglie di sopresa, sempre nell’ultima pagina: la verità colpisce come la presa di coscienza di qualcosa che si è sempre saputo ma che si è voluto rimuovere. Come in tutti i buoni gialli, quelli basati sull’intelligenza e non sulla violenza, il lettore deve stare attento a ogni particolare, tanto più quando questo appare superfluo o insignificante, tanto più se si ha già letto un libro di Lapid. Questo è un libro la cui fine sorprendente ci lascia increduli e ci fa sentire la necessità di rileggere tutto dall’inizio. Raccontarne la trama è dunque proibito, ma una cosa mi sia concesso di aggiungere: sin dalle prime pagine si ha la sensazione che la storia del protagonista alla ricerca della propria madre sia in qualche modo legata a quella del lettore, che nel romanzo è lo scrittore stesso. «In ogni modo, per quanto ne so io, là dove l’identità di qualcuno appare misteriosa, esce sempre fuori che si tratta di uno sporco ebreo.» [p. 58]

Haim Lapid padroneggia con perfetta lucidità e sensibilità gli strumenti della scrittura, in un romanzo dove niente sembra superfluo, dove la misura non si trasforma in freddezza. Il fatto che al lettore non tutto venga svelato e che gli si richieda uno sforzo di interpretazione rimanda alla tradizione della narrativa ebraica, dove è ben radicata la consapevolezza non solo che non si deve, ma soprattutto che non si può dire tutto, perché, nonostante i nostri sforzi, semplicemente non ne siamo capaci.