Halachah e sifrut. Una difesa letteraria del Talmud

A proposito di: Bialik, Chaim Nachman, Halachah e Aggadah. Sulla legge ebraica, a cura di Andrea Cavalletti, trad. di Davide Messina, Bollati Boringhieri, Torino 2006.

Di Claudia Rosenzweig

image_1516A proposito di: Bialik, Chaim Nachman, “Halachah e Aggadah. Sulla legge ebraica”, a cura di Andrea Cavalletti, trad. di Davide Messina, Bollati Boringhieri, Torino 2006.

In questi giorni è possibile trovare in libreria la traduzione italiana di un famoso articolo di Chaim Nachman Bialik: Halachah e Aggadah. Si tratta di un testo importante nella storia della letteratura ebraica moderna, perché si inserisce nel problema della costruzione di una tradizione letteraria per una letteratura nazionale in formazione.
Bialik è nato a Radi, nei pressi di Zitomir (e non Zimotir, come appare in un evidente refuso a p. 55), in Ucraina, nel 1873, ed è morto a Vienna nel 1934. È considerato il più grande poeta della letteratura ebraica moderna.
Pubblicato per la prima volta nel 1917, questo scritto di Bialik è uno dei saggi che speriamo di vedere anch’essi presto tradotti in italiano, a partire da Giluy ve-kisuy balashon. Una traduzione inglese di questi articoli, compreso Halachah e Aggadah, è apparsa di recente: Revealment and Concealment. Five Essays, trad. di Leon Simon, Afterword by Zali Gurevitch (Ibis, Jerusalem 2000).
Halachah e Aggadah è qui presentato in un contesto affascinante: quello del rapporto tra Walter Benjamin e Gershom Scholem con gli intellettuali ebrei che, per lo più provenienti dall’Europa centrale e orientale, passano dalla Germania del periodo tra le due Guerre e proseguono verso la Palestina del Mandato Britannico, come Sha”y Agnon. La traduzione italiana è dunque necessaria per comprendere a fondo il discorso di Benjamin. Posto dunque che si tratta indubbiamente di una pubblicazione importante, è forse utile aggiungere qualche breve osservazione sulla posizione che il saggio di Bialik occupa da un punto di vista nettamente letterario. È chiaro infatti, come scrive il curatore del volume nella sua postfazione, che «Il saggio di Bialik è stato scritto quando il volto della Halachah era oscurato dalla Aggadah» (p. 66). La Halachah è per Bialik la cattedrale dell’ebraismo: «mentre gli artisti degli altri popoli sedevano nelle loro botteghe e con sentimento fine e delicato cercavano misure e forme armoniche nel marmo per addolcire i sensi degli uomini, i saggi di Israele sedevano nelle loro scuole e con ispirazione divina e sentimento purissimo cercavano le forme e le misure armoniche nelle opere di carità, per perfezionare l’uomo stesso, per “purificare le creature”» (p. 17). In una rinascita letteraria che gli illuministi ebrei, i maskilim, vedevano incentrata sulla Bibbia, difendere il Talmud nei suoi due aspetti, aggadico e halakhico, significava difendere il mondo ebraico tradizionale come riferimento culturale tout court. E infatti se tutti, ebrei e non-ebrei, conoscono la Bibbia, il Talmud invece, con la sua Mishnah e la sua Ghemarah, con la sua Aggadah e la sua Halachah, sono per lo più ignoti, o, peggio, avvolti da un alone di oscurità negativa. Producendo una letteratura che ha come riferimento la Bibbia, la letteratura ebraica acquisterà lo stesso prestigio e la stessa legittimità delle altre letterature europee; se invece qualche scrittore utilizzasse la lingua della Mishnà, scrivesse in uno stile ricco di riferimenti al Talmud, certo sarebbe comprensibile agli ebrei che vengono dal mondo ebraico tradizionale, ma dovrebbe rompere il boicottaggio che circonda il Talmud. Parlare di Haggadah, cioè delle parti narrative del Talmud, è ancora possibile, e diversi intellettuali ebrei dell’epoca sono impegnati in questa operazione: i brani aggadici possono invero essere staccati dal loro contesto – le discussioni halachiche appunto, che portano a stabilire delle regole, delle leggi di comportamento – e diventare dei racconti, che nella tradizione ebraica hanno sempre goduto di una grande fortuna, a partire dal famoso ‘Ein Ya‘akov di Rabbi Ya‘aqov Haviv, composto nel XV secolo, uno dei best-sellers del mondo ebraico tradizionale, fino a Celebrazione talmudica. Ritratti e leggende, di Elie Wiesel (Lulav, Milano 2002, ma si veda ora, sempre di Wiesel, anche Le storie dei saggi. I maestri della Bibbia, del Talmud e del Chassidismo, trad. di L. Cassai, Garzanti). Forse per questo è stata avanzata l’ipotesi che l’intervento di Bialik fosse diretto a coloro che facevano l’operazione di staccare i testi aggadici dal loro contesto, in particolare Martin Buber e il suo ‘ebraismo esteticizzato’; ma, potremmo aggiungere, anche il Louis Ginzberg de Le leggende degli ebrei (pubblicate in Italia da Adelphi), stampate per la prima volta tra il 1909 e il 1928:

«Colui che camminando lungo una strada interrompe il suo studio per dire: “Com’è bello questo albero, com’è bello questo campo!”, viene condannato dalla Scrittura come se avesse peccato contro la propria anima.» Gli esteti hanno sprecato i loro strali contro questa povera Mishnah, ma chi tra noi rispetti lo spirito vi coglierà tra le righe anche il fremito del cuore e il vivo timore per la sorte futura di un popolo «errante», che in mano non ha altro che un libro e che fonda solo nel proprio spirito anche la più intima relazione con le terre in cui passa. [pp. 28-29]

Difendere la halachah significa pertanto, in questo contesto, difendere il Talmud, e quindi difendere i testi della tradizione ebraica nella loro complessità e interezza, significa difenderli anche da un punto di vista intellettuale, da un punto di vista letterario e, infine, dal punto di vista della vita spirituale, della «vita stessa del popolo, della sua realtà [p. 35]. Davanti agli scrittori suoi contemporanei, impegnati nella battaglia per una letteratura ebraica moderna, e costretti ad adattare generi letterari e stili dalle letterature circostanti, dunque contro le mode letterarie del suo tempo, Bialik presenta la halachah come l’originale epos nazionale ebraico [p. 39]: «Abbiamo sete di fatti. Abituiamoci nella vita più all’azione che ai discorsi, nella letteratura più alla Halachah che alla Aggadah» (p. 46). Come nell’opera di Shumel Yosef Agnon e, se pure in modi diversi, alcuni scrittori israeliani moderni, in particolare Aharon Appelfeld e Hayim Be’er (entrambi pubblicati in Italia da Giuntina), lo scrittore ebreo è quello che è in contatto con le fonti ebraiche.

Nell’autobiografia di Amos Oz troviamo un ritratto toccante e signfiicativo di Bialik:

«Una volta lo zio Yosef disse a Bialik: “Ti chiarirò per mezzo di una parabola qual’è la differenza tra te e me. Se in un giorno come questo venisse l’imperatore Adriano, e emanasse un crudele decreto di perseguitare e distruggere o il Tana”kh [la Bibbia ebraica] o il Talmud, tu, Bialik, avresti pianto sul Tana”kh e avresti scelto… che restasse il Talmud, e io avrei pianto sul Talmud e avrei scelto di salvare il Tana”kh”. Bialik, così raccontava lo zio Yosef, “si immerse nei suoi pensieri e dopo qualche istante disse: “Hai ragione”». [Amos Oz, Sippur ‘al ’ahava ve-choshekh, Keter, Jerusalem 2002, pp. 122-123 [trad. it. E. Loewenthal, Una storia di amore e di tenebra, trad. di Feltrinelli, Milano 2003, pp. 132-133, ma il testo è stato qui ritradotto].

Halachah e aggadah è un testo molto difficile da tradurre in italiano, perché composto da termini che si rifanno alla lingua della tradizione ebraica. È forse per questa estrema difficoltà che questo saggio appare in italiano così tardi, come spesso accade per altri testi essenziali per la comprensione dell’ebraismo. Ne consigliamo la lettura sia agli appassionati di letteratura ebraica moderna che a coloro che vorrebbero capire meglio il Talmud e la vita ebraica.
Vogliamo ricordare infine che nella quarta di copertina del volume, accanto alla segnalazione delle pochissime opere di Bialik note in Italia, vanno aggiunti due volumi: le Leggende del re Salomone, illustrate di Nachum Gutman, tradotte da Gaio Sciloni (Stampa Alternativa 1994), e soprattutto la bellissima traduzione dei racconti di Bialik curata da Antonio Di Gesù per i tipi di Giuntina, pubblicata con il titolo La tromba e altri racconti (Giuntina, Firenze 2003). Siamo ancora in attesa del coraggioso traduttore-poeta che osi un giorno proporre ai lettori italiani anche l’opera poetica di Chaim Nachman Bialik, recentemente ripubblicata nell’originale ebraico in una nuova edizione aggiornata e commentata da Avner Holtzman per la casa editrice Dvir (2004).