Herzl: “Il sionismo è l’aiuto che gli ebrei porgono a se stessi”

A centocinquant’anni dalla sua nascita, resta attualissima la forza visionaria e l’approccio profondamente pragmatico del fondatore del sionismo politico

di Marco Paganoni, giugno 2010

image_2860

Theodor Herzl

“Nei paesi attualmente antisemiti mi si darà ragione; negli altri, dove gli ebrei per il momento si trovano bene, probabilmente i miei compagni di stirpe impugneranno nella maniera più violenta le mie affermazioni: essi mi crederanno solo quando la caccia all’ebreo tornerà a visitarli. E quanto più a lungo l’antisemitismo si fa attendere, tanto più feroce deve esplodere”.
Impossibile non provare un profondo turbamento nel rileggere queste parole del “Der Judenstaat”, opportunamente riproposte oggi da Sandro Lopez Nunes nel suo bel libro appena pubblicato, a centocinquant’anni dalla nascita del fondatore del sionismo politico (“Teodoro Herzl, il messia degli ebrei. Dall’emancipazione al sionismo”, Mimesis, 2010). Certo, non è lecito affermare che Herzl avesse previsto la tragedia che si sarebbe abbattuta sul popolo ebraico una quarantina d’anni dopo la sua morte. Nessuno, né lui né altri, poteva immaginare le dimensioni che avrebbe assunto l’antisemitismo europeo sotto fattispecie nazista. “La realtà – nota Lopez – si sarebbe dimostrata ancora peggiore di quanto Herzl l’avesse prevista”. Ma certamente Herzl intravide i pericoli, ebbe sentore delle minacce, percepì una tendenza che contraddiceva la radicata fede, in ambiente ebraico e non ebraico, nelle “magnifiche sorti e progressive” della moderna umanità. E si interrogò sulle soluzioni. In tutti i suoi scritti – accuratamente riproposti da Lopez – e nella frenetica azione politica cui si dedicò nei suoi ultimi dieci anni di vita, si avverte un forte senso di urgenza: se il popolo ebraico non saprà riprendere le redini del proprio destino politico, sarà esposto alla catastrofe. Herzl lo intuiva oscuramente. Noi oggi, a posteriori, non possiamo che dargli mestamente ragione.
“Quando la catastrofe arrivò – scrive Lopez – malauguratamente lo stato degli ebrei non era ancora pronto”. Con le conseguenze che sappiamo. Se Israele fosse già esistito, come da tempo era stato preconizzato ed anche promesso, anche la Shoà sarebbe stata diversa. “Ciò che la Shoà ha dimostrato – ha scritto tempo fa il Jerusalem Post (8.06.09) – è che il mondo è un posto troppo pericoloso perché gli ebrei possano viverci senza un loro stato indipendente e senza la possibilità di difendere se stessi. Ma questo noi sionisti lo sostenevamo già molto tempo prima che Hitler salisse al potere”.
Sulla base di questa intuizione Herzl formulò il “folle” progetto sionista in termini politici e organizzativi, fondando nel 1897 l’Organizzazione Sionistica Mondiale. Il sionismo come movimento politico e come epopea del ritorno degli ebrei nella terra d’origine ottenne, fra alterne vicende, successi che possiamo definire strepitosi. Nel giro di poche generazioni la piccola, esausta comunità di ebrei che sopravviveva da secoli in quella Terra d’Israele che altri chiamano Palestina conobbe una rinascita senza precedenti: una rinascita demografica, ma anche sociale ed economica che interessò – a differenza di quanto spesso si è portati a credere – entrambe le comunità del paese, quella ebraica e quella non ebraica. Una rinascita linguistica e letteraria (con il ritorno dell’ebraico a lingua d’uso corrente), culturale, scientifica, successivamente politica (con il riconoscimento delle strutture di autogoverno ebraico da parte della Società delle Nazioni, prima, e delle Nazioni Unite poi); da un certo punto, di necessità, anche militare. Tuttavia il successo del sionismo, che genera le strutture di quella costruzione sociale che successivamente darà vita al moderno Stato d’Israele, resta incompleto. Per Herzl e i sionisti, il rinnovato autogoverno ebraico non poteva che realizzarsi nel rispetto e nel riconoscimento da parte della comunità delle altre nazioni e degli altri popoli. Anche dei popoli vicini. Per il progetto sionista, pace e concordia col resto del mondo non sono un obiettivo accessorio, una cosa del tipo “se c’è, bene; se no, pazienza”. Riconoscimento internazionale e pace coi vicini sono parte integrante dell’aspirazione sionista: altrimenti la “questione ebraica”, anziché avviarsi a soluzione, tende paradossalmente a riproporsi su scala nazionale: al quartiere-ghetto rischia di subentrare lo stato-ghetto; all’individuo ebreo circondato dalla diffidenza e dall’ostilità dei non ebrei rischia di subentrare lo stato ebraico come “ebreo fra gli stati”. In questo senso – ci ricorda Herzl – quel riconoscimento e quella pace, ancora oggi così lontani dall’essere garantiti, sono obiettivi intrinsecamente sionisti. “Con ciò non vogliamo affermare – avvertiva Leo Pinsker già nel 1882 – che sarà raggiunta l’armonia assoluta tra Israele e i popoli. Tale armonia probabilmente non è mai esistita neanche fra gli altri popoli. Il millennio in cui le nazioni si immergeranno nell’umanità è ancora tanto lontano da essere inafferrabile all’occhio. Fino ad allora le aspirazioni e gli ideali dei popoli devono limitarsi a stabilire un tollerabile modus vivendi”.
Ci piace ricordare questo approccio lucidamente disincantato del movimento nazionale ebraico al suo esordio, più in sintonia di quanto non si creda con l’approccio “visionario” di Herzl. “Lo scopo primo – si legge nel Judenstaat – è la sovranità, assicurata dal diritto internazionale, sopra una striscia bastevole per le nostre giuste necessità”. Pur così ispirato e carismatico da sentirsi ben presto definire profeta e messia, Herzl fu sempre, a suo modo, un pragmatico. Aveva un problema da risolvere – le sofferenze e le ingiustizie patite dagli ebrei –, non un’ideologia da realizzare, né tanto meno disegni della Provvidenza da portare a compimento. È quello che vorremmo definire il tratto squisitamente laico di Herzl. Laico, certo, nel senso stretto del termine. “Non ci sarà una teocrazia – scrive – La fede ci tiene uniti, la scienza ci rende liberi. Non permetteremo che le velleità teocratiche di alcuni nostri rabbini prendano piede: sapremo tenerle ben chiuse nei loro templi”. Ma laico anche in senso più ampio, rispetto a qualunque “fedeltà” o “deferenza” che non fosse per la soluzione del problema ebraico. È il Theodor Herzl che, in un primo momento, accarezza persino l’idea di una “conversione di massa organizzata” degli ebrei. È l’Herzl che titola il suo libro “Lo stato degli ebrei”, impropriamente tradotto “lo stato ebraico” (come opportunamente ci ricorda Lopez). È l’Herzl che apre il primo Congresso sionista a Basilea dicendo: “La condizione degli ebrei nei singoli paesi non è soddisfacente. Probabilmente non ci saremmo radunati se le cose stessero diversamente”. È l’Herzl che non esita a incontrare il kaiser, il sultano, il papa e persino un famigerato antisemita come il ministro degli interni zarista Vyacheslav Plehve. È l’Herzl che spende le sue ultime energie per far approvare al sesto Congresso sionista l’opzione Uganda, perlomeno come ipotesi provvisoria.
Certo, nota Lopez, quella dell’Uganda era un’idea effettivamente bizzarra. Eretz Israel era la patria storica del popolo ebraico, ad essa sin dal primo giorno il sionismo aveva fatto riferimento. E lo stesso Herzl chiuse il suo ultimo Congresso ribadendo l’antica promessa: “Se ti dimentico, o Gerusalemme…”. Eppure in questi anni in cui, per sperare – almeno – di realizzare quella concordia coi vicini che è nel suo DNA, il sionismo deve insistere – lui, più dei suoi avversari – sulla necessità di dividere la terra, di imporre quasi la spartizione in due stati se vuole salvaguardare l’idea e la realtà di uno stato che sia davvero “degli ebrei” (“Una cosa deve essere inviolabilmente fissata – disse Herzl al primo Congresso – la base può essere unicamente uno stato di diritto e non di tolleranza. Della tolleranza abbiamo fatto esperimento a sufficienza”), insomma in questi anni ci pare importante capire e recuperare il tratto profondamente laico con cui nacque il nazionalismo ebraico: laico in quanto libera opera di uomini che si volevano liberi. “Il sionismo – disse Herzl al primo Congresso – è l’aiuto che gli ebrei porgono a se stessi”. Che è, forse, l’unica forma legittima di nazionalismo, e non solo per il popolo ebraico. Diceva Bernard Lazarre nel 1897 agli studenti ebrei di Russia: “In alcuni momenti della storia, il nazionalismo è per alcuni gruppi umani la manifestazione dello spirito di libertà. Tutti gli anni a Pasqua ripetiamo: l’anno prossimo a Gerusalemme. Immagino che, per quelli che gemono ancora in qualche ghetto, come per gli avi del medioevo, queste parole vogliano dire: l’anno prossimo saremo in un paese di libertà, saremo uomini, potremo vivere sotto il sole che è di tutti eccetto nostro”.
È nello spirito laico e pragmatico del più autentico sionismo che gli israeliani possono rivolgersi ai vicini palestinesi e di tutto il Medio Oriente con le parole che Moses Hess ebbe a scriveva nel 1862, quando Herzl era ancora in fasce: “Nessun popolo moderno che aspiri alla patria può negare il diritto del popolo ebraico alla sua terra senza, al contempo, cadere in una fatale contraddizione, senza compromettere la fondatezza delle proprie aspirazioni e commettere un suicidio morale”.