I bolscevichi di Gaza

Tutte le rivoluzioni violente, alla fine, divorano se stesse

image_2230Il cappuccino di Anna Geifman si raffredda mentre lei si infervora parlando di Hamas e delle sue motivazioni. L’energica professoressa passa da un concetto all’altro, e poi a un altro ancora. “Potrei parlare di terrorismo da domani fino al giorno del giudizio – dice ridendo mentre prende fiato, per poi aggiungere più seriamente: “O finché non la smetteranno”.
A Gerusalemme le discussioni sul terrorismo palestinese sembra davvero che debbano durare fino al giorno del giudizio, e gli accademici impegnati in esse si fanno avanti a dozzine. Ciò che rende diverso il contributo di Geifman e il fatto che la sua esperienza deriva da tutt’altro campo, e persino da un’altra epoca: dalla Russia rivoluzionaria. Questa è la materia che lei insegna agli studenti della Boston University, una materia– dice – di straordinaria attualità. “Tutto ciò che vediamo oggi – spiega – ogni singolo aspetto del terrorismo, lo possiamo già vedere nella Russia del secolo scorso”.
Ben prima che la nostra vita fosse radicalmente cambiata da Hamas e Hezbollah, continua Geifman, la società russa era già stata devastata da violenze selvagge e da tumulti sfociati nella rivolta contadina del 1905, fino alla rivoluzione bolscevica del 1917 e all’instaurazione dell’Unione Sovietica.
La violenza politica in Russia, ciò che oggi chiamiamo terrorismo, si sviluppò principalmente a Mosca e veniva perpetrata da “organizzazioni combattenti” il cui primo bersaglio erano i funzionari governativi. “Si trattava di un terrorismo tradizionale, vecchia maniera, che prendeva la mira con cura assassinando persone che ricoprivano alte cariche nel governo, persone con influenza politica. Ma successivamente – aggiunge Geifman – iniziarono a uccidere praticamente chiunque riuscissero raggiungere, spesso senza alcun nesso. Chiunque indossasse una uniforme divenne un bersaglio: fare il postino, ad esempio, divenne un’occupazione pericolosa”.
Pensate che gli attentati contro i centri di reclutamento della polizia in Iraq siano una novità? Ricredetevi, dice Geifman, ricordando che a quei tempi vennero uccisi un quarto degli agenti di polizia della città di Riga. Pensate che la rete informale e decentrata di al-Qaeda fatta di cellule e sottocellule sia un’innovazione? Per niente, continua Geifman, ricordando che le organizzazioni combattenti a Mosca figliarono tutta una serie di gruppi gregari in aree remote, spesso gestiti in modo indipendente dal quartier generale che, talvolta, era totalmente all’oscuro della loro stessa esistenza.
All’aumentare del bagno di sangue, racconta Geifman, “le violenze degradarono in uccisioni indiscriminate. Non attaccavano più solo la gente in uniforme, ma chiunque avesse ‘un aspetto borghese’. Se portavi gli occhiali o un orologio o un ombrello, allora eri evidentemente troppo ricco per essere un proletario. Ecco il passaggio al puro e semplice terrorismo”.
A un certo punto, agli inizi del XX secolo, in Russia si arrivarono a contare fino a 18 atti di terrorismo al giorno, un dato paragonabile, ad esempio, a quello degli attentati qui in Israele nel 2002, o più recentemente in Iraq. Anche il tipo di terrorismo era del tutto simile. “Facevano esplodere stazioni dei treni e caffè – dice Geifman – Uno di questi attentati venne giustificato dicendo: volevamo solo vedere i borghesi contorcersi nell’agonia”.
Non solo gli obiettivi delle aggressioni divennero indiscriminati; lo divennero anche gli aggressori. Sembrava che chiunque potesse dichiararsi “terrorista rivoluzionario” e unirsi a uno degli innumerevoli gruppi con nomi fantasiosi come “La Lega della miccia rossa”, in un accozzaglia di disposizioni violente che si confondevano fra loro.
Come la ripetitiva proliferazione di gruppi terroristici palestinese (magistralmente ridicolizzata dai Monty Python) e le infinite permutazioni delle milizie jihadiste odierne, anche le pretese affiliazioni ideologiche e le mire strategiche dei terroristi rivoluzionari russi divennero così contorte da mandare in confusione i terroristi stessi. Nelle deposizioni ai processi, rileva Geifman, capitava spesso che gli stessi terroristi non fossero in grado di spiegare in cosa credevano e talvolta persino di citare in modo preciso il nome completo della loro organizzazione. “Alcuni erano abbastanza onesti da dire: ma chi se ne frega della ideologia? La cosa che conta è uccidere”.
Le somiglianze tra i terroristi russi e i terroristi installati alla porte di Israele sono l’oggetto di gran parte dell’attuale lavoro di Geifman. Da quando ha fatto l’aliya, all’inizio di quest’anno, con l’intento di dividere il suo tempo tra l’insegnamento a Boston e il lavoro di ricerca e scrittura a Gerusalemme, Geifman ha trascorso lunghi fine-settimana a Sderot incontrando la gente della città israeliana più bombardata dai missili di Hamas, e cercando di stimolare una presa di consapevolezza sulla loro condizione. La conoscenza della storia russa, sostiene, può offrire un prezioso contributo all’analisi della situazione nella striscia di Gaza. “Gli israeliani sanno tutto di Hamas – dice – ma non sanno niente del precedente russo. La gente non ha idea che le origini della guerra al terrorismo affondano in Russia”.
La stessa Geifman se ne è resa conto per una via tortuosa. Dopo essersi trasferita dall’Unione Sovietica a Boston con la famiglia nel 1978, da teenager si sentiva “così poco americana” che si mise a studiare la storia russa come una specie di profugo. Il che la portò a scrivere una biografia di Viktor Chernov, il leader del Partito Socialista-Rivoluzionario per il quale il terrorismo era la principale strategia. Fecero seguito “Quinto non uccidere: terrorismo rivoluzionario in Russia”, e altre opere. Dopo un periodo sabbatico in Israele nel 2000, Geifman si è concentrata sui paralleli moderni, specialmente in Medio Oriente, della violenza politica nella Russia rivoluzionaria. Ma quello che cerca di fare soprattutto è suonare un campanello d’allarme sul pericolo di pensare che Hamas venga moderata dall’esercizio del controllo sulla striscia di Gaza. “Ogni volta che sento qualcuno suggerire che Hamas potrebbe diventare un movimento più responsabile ora che è al potere, penso: perché non leggete qualcosa sui bolscevichi? Poi vediamo se la penserete allo stesso modo”.
La irrita sentir ipotizzare che Hamas sarebbe più aperta ai negoziati con Israele e che starebbe ammorbidendo le sue posizioni estremiste, mentre invece la storia indica il contrario. “Volete sapere cosa accade quando i terroristi prendono il potere? Iniziano subito a edificare su ciò che hanno fatto per arrivare al potere. Si considerino i bolscevichi, che erano terroristi prima di arrivare al potere nel 1917: usarono questa loro rivoluzione fondata sul terrorismo per edificare uno stato fondato sul terrorismo”. Non sorprende, ad esempio, che Hamas investa così tanto nelle sue “forze di sicurezza”, se si ricorda che i bolscevichi istituirono il precursore del KGB meno di un mese dopo aver preso il potere. Gli stati del terrore, dice Geifman, si fondano su un retaggio, un’ideologia e una pratica precisi: il retaggio, l’ideologia e la pratica del terrorismo. Così, quando qualcuno suggerisce che l’ascesa al potere a Gaza di un gruppo terrorista come Hamas possa in realtà tradursi in uno sviluppo positivo, Geifman replica: “Mi atterrisce come non potete nemmeno immaginare”.
Se l’idea di Hamas come i bolscevichi di Gaza è corretta, allora “non c’è speranza che Hamas abbandoni il terrorismo, nessuna speranza. Resteranno un’organizzazione votata al terrorismo. E le prime vittime del regime di Hamas non saranno gli israeliani, ma i palestinesi stessi, esattamente come le prime vittime dei bolscevichi non furono i polacchi, i cechi, gli americani o nessun altro se non gli stessi russi e ucraini”.
Non voler vedere questa analogia, continua Geifman passando alla psicologia, è a sua volta un effetto del terrorismo che colpisce la società occidentale: “Credo che soffriamo, che il mondo intero soffra in questo momento di una forma collettiva di sindrome di Stoccolma. Il nostro problema è che vogliamo talmente tanto credere alla bontà delle persone che non riusciamo a vedere quanto certe persone possano essere cattive. Fino al punto, talvolta, di non volerle nemmeno chiamare terroristi. Bene, li si chiami come si vuole, li si chiami anche poveri cuccioli: non smetteranno per questo di uccidere”.
Geifman fa un paragone tra il massacro della scuola di Beslan e le raffiche di missili dei gruppi terroristi di Gaza su Sderot e sulle altre cittadine israeliane della zona. E sottolinea che “spesso lanciano i loro Qassam al mattino, all’ora i cui i bambini vanno a scuola, e nel pomeriggio all’ora in cui tornano a casa”. I bambini, dice, sono il simbolo della vita e come tali sono bersagli particolarmente allettanti per i gruppi terroristi, la cui cultura è esplicitamente fondata sul culto della morte.
Nonostante tutto questo, Geifman si dice ottimista che Hamas alla fine scomparirà. Perché? “Perché nella storia nessun culto di morte è mai sopravvissuto”. Ed è anzi istruttivo il modo in cui sono finiti. “Una delle caratteristiche di fondo della cultura della violenza è che si comporta come un organismo vivente, nel senso che è mobile e deve restare in continuo movimento per sopravvivere. Finché la violenza è diretta verso l’esterno, può mantenere il suo impeto. Ma quando non può più rivolgersi all’estero, quando viene bloccata e isolata, comunque non può fermarsi. Come ogni organismo, deve andare avanti e così la violenza si ritorce contro i suoi promotori. Si pensi ai nazisti: quando non hanno più potuto uccidere gli altri, hanno ucciso se stessi”.
Se la storia insegna qualcosa, dice Geifman, Hamas deve stare molto attenta. “I capi terroristi pensano di poter controllare la morte, mentre in realtà ne sono solo dei meri strumenti. Ecco perché tutte le rivoluzioni violente, alla fine, divorano se stesse”.

(Da: Jerusalem Post, 19.08.08)

Nella foto in alto: Anna Geifman