I cancelli di Gaza

La mancata cerimonia del passaggio di consegne come metafora dei rapporti fra Israele e Autorità Palestinese.

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_890Alle tre del pomeriggio di domenica 11 settembre, ultimo giorno di Israele nella striscia di Gaza, il comandante delle Forze di Difesa israeliane a Gaza generale Aviv Kochavi aveva intenzione di consegnare agli ufficiali dell’Autorità Palestinese le mappe dettagliate delle strutture idriche, elettriche e fognarie. Ma la cerimonia congiunta del passaggio delle consegne si è trasformata in una cerimonia solitaria perché l’Autorità Palestinese si è rifiutata di prendervi parte, sostenendo che lo faceva perché non era stato raggiunto un accordo sulla questione dei valichi di confine.
La mancata cerimonia è stata, nel suo piccolo, una metafora di come vanno i rapporti fra Israele e Autorità Palestinese sin dalla famosa stretta di mano Rabin-Arafat di 12 anni fa sul prato della Casa Bianca. Sin dall’avvio del processo di Oslo, Israele ha continuato a dire all’Autorità Palestinese: “Prego, prendetevi uno Stato”. Solo ora alla comunità internazionale inizia a venire il dubbio che sia l’Autorità Palestinese, e non Israele, quella che ha continuato a dire di no.
La modesta cerimonia che non ha avuto luogo ha raffigurato perfettamente sia il desiderio quasi disperato di Israele di passare ai palestinesi la responsabilità sul loro destino, sia la determinazione dell’Autorità Palestinese di non assumersi tale responsabilità.
Cinque estati fa, a Camp David, Ehud Barak e Bill Clinton cercarono di far accettare a Yasser Arafat uno Stato. Se Arafat avesse accettato, non solo tutta la striscia di Gaza ma anche quasi tutta la Cisgiordania sarebbero state consegnate ai palestinesi pacificamente. Invece Arafat lanciò una guerra terroristica che è costata la vita a migliaia di israeliani e a un numero anche più alto di palestinesi.
Anche oggi è in corso un bizzarro dibattito con il quale l’Autorità Palestinese, come Hezbollah in Libano dopo il ritiro israeliano da quel paese, si aggrappa alla copertura della “occupazione”. La discussione verte intorno al fatto se agli abitanti di Gaza verrà garantito o meno un pieno controllo sui contatti con il mondo esterno, vuoi attraverso il confine con l’Egitto, vuoi via mare o per via aerea.
Che Israele non possa aspettarsi che il mondo consideri il suo abbandono di Gaza del tutto completo, se mantiene il controllo su tutti gli accessi a quel territorio, è comprensibile. Così come è comprensibile la preoccupazione d’Israele che Gaza non diventi un campo armato terroristico più di quanto già non sia, e che non vengano spalancate le porte a un flusso di armi ed esplosivi molto maggiore di quello che già è stato finora, nonostante gli sforzi israeliani, attraverso i tunnel dall’Egitto. La quadratura del cerchio, pare possa essere raggiunta grazie ad accordi con parti terze, come gli europei, che saranno presenti ai posti di confine per impedire che armi e terroristi fluiscano nella striscia di Gaza su camion, battelli o velivoli.
Che Ariel Sharon, il primo ministro che praticamente in ogni discorso ha sempre ribadito la necessità per Israele di contare solo su se stesso per la propria difesa, rimetta ora un obiettivo di sicurezza tanto delicato nelle mani di una terza parte dà la misura di quanto Israele si sia spinto avanti nella sua volontà di cedere il reale controllo all’Autorità Palestinese. Lo stesso vale per il fatto che Israele sta abbandonando quel Corridoio Philadelphia tra Egitto e striscia di Gaza il cui controllo a lungo l’establishment della difesa aveva definito cruciale per la difesa di Israele.
Il risultato netto di tutto questo è che ora dipende in gran parte dai palestinesi se Gaza diventerà o meno un focolaio di terrorismo ancora più pesantemente armato. Sharon non lo ammetterebbe volentieri, ma è difficile credere che le terze parti possano ottenere risultati migliori, nel bloccare armi e terroristi, di quelli ottenuti da Israele. E Israele non aveva certo ottenuto pieno successo.
Alla cerimonia solitaria di domenica, il capo di stato maggiore Dan Halutz ha dichiarato: “Il trasferimento del controllo ai palestinesi li obbliga a garantire legge e ordine e a impedire il terrorismo. Questo è il loro vero test. Noi non ammetteremo inettitudini, non chiuderemo gli occhi di fronte ai fallimenti, non tollereremo attentati terroristici”. Il generale Kochavi ha affermato: “Lasciamo tutti insieme questo territorio chiudendoci il cancello dietro le spalle. Ma il cancello che chiudiamo è lo stesso che verrà aperto, perché confidiamo che sarà un cancello di pace e tranquillità, un cancello di speranza, di buona volontà e di buon vicinato”.
Proprio così. Se i palestinesi decideranno di mettersi finalmente a costruire lo Stato pacifico che dicono di volere, Israele non solo eviterà di interferire, ma sarà pronto e capace di fare molto per aiutare. All’apice degli anni di Oslo i ministri israeliani avevano approntato elaborati piani per la cooperazione economica israelo-palestinese, con tanto di parchi industriali e mega-progetti congiunti finanziati dalle donazioni internazionali. Sotto Arafat, l’Autorità Palestinese non ne fece nulla. Anche Mahmoud Abbas (Abu Mazen) sembra non avere fretta di coinvolgere Israele economicamente, nonostante sostenga che migliorare le condizioni di vita dei palestinesi sia la sua priorità. Indipendentemente da come verrà risolta la questione dei valichi di confine, è già chiaro che il destino di Gaza è nelle mani dei palestinesi. Ora vedremo se sono pronti a farne un uso costruttivo.

(Da: Jerusalem Post, 12.09.05)

Nella foto in alto: Soldati israeliani hanno chiuso lunedì mattina il cancello del valico di Kissufim dopo l’usciata dell’ultima jeep dalla striscia di Gaza.