I guai di Hamas

Al di là degli slogan tracotanti, il gruppo islamista naviga in cattive acque.

Di Guy Bechor

image_3346Nulla frena Ismail Haniyeh, il “primo ministro” di Hamas nella striscia di Gaza, dal continuare a diffondere dichiarazioni in stile Ahmadinejad sui giorni contati d’Israele, e dall’invocare la creazione di un esercito arabo per una jihad (guerra santa) per la “liberazione” della Palestina. Ma dietro gli slogan tracotanti, esiste per Hamas una fosca realtà che non può più essere nascosta.
Innanzitutto l’alleanza di Hamas con l’Iran sembra giunta al capolinea: un patto che era già di per sé “contro natura” dal momento che vedeva un’organizzazione araba (palestinese) sunnita appoggiare uno stato non arabo (persiano) sciita. Sicché, quando Hamas si è rifiutata di obbedire all’ordine iraniano di appoggiare il traballante Bashar Assad, Tehran ha sbattuto la porta in faccia al gruppo islamista palestinese. Quel che è peggio, ha interrotto il flusso di denaro che serviva a Hamas per pagare i suoi cinquantamila ufficiali e soldati nella striscia di Gaza. Dunque, dove andrà adesso Hamas a prendere i soldi? Ecco perché l’organizzazione è impegnata in un aspro contenzioso con l’Autorità Palestinese e la Lega Araba sui fondi che, a suo dire, spetterebbero al gruppo.
Hamas è stata anche costretta a lasciare Damasco, la capitale della sua dirigenza all’estero. Dove andrà adesso? C’è stata una certa speranza che la Giordania accogliesse il quartier generale di Hamas, finché la settimana scorsa la dirigenza del gruppo è rimasta scioccata nell’apprendere che la Giordania intende imporre precise limitazioni. Il primo ministro giordano ha messo in chiaro che il paese ospiterà gli alti esponenti del gruppo e le loro famiglie “solo come individui”, vietando loro qualunque attività politica. Pertanto l’opzione giordana non è praticabile, agli occhi di una furibonda Hamas. Rimane l’opzione Egitto. Tuttavia, nel momento in cui i Fratelli Musulmani cercano di accreditarsi davanti al mondo come pragmatici e realisti, spostare al Cairo il quartier generale di un gruppo terrorista potrebbe cerare imbarazzi. Haniyeh stesso ha visitato l’Egitto e ha parlato a lungo della fine di Israele, ma i rappresentanti della Fratellanza sono rimasti zitti e questo silenzio lo dovrebbe preoccupare. La Fratellanza Musulmana oggi non ha da preoccuparsi di cinquantamila persone, ma di 88 milioni: dopotutto al movimento islamista egiziano è stato imposto l’onere di gestire lo stato, e se non si dimostrasse in grado di migliorare la situazione economica del paese, la furia delle piazze le si potrebbe presto rivoltare contro. D’altra parte, spostare il quartier generale di Hamas a Gaza è fuori discussione, giacché gli esponenti di spicco del gruppo hanno troppa paura delle reazioni mirate di Israele ai loro attacchi.
Fino a poco tempo fa sembrava che la cosiddetta “primavera araba” e i partiti islamici avrebbero abbracciato Hamas, e certamente a parole è stato così. Ma creare davvero un esercito per la jihad conto Israele? Tutti gli stati arabi oggi si dibattono in profondi problemi interni, tormenti esistenziali al cui cospetto i problemi di Hamas impallidiscono.
Anche gli equilibri di potere interni a Hamas stanno cambiando. La Hamas dell’interno, vale a dire quella che governa a Gaza, sta guadagnando forza a spese della dirigenza esterna, che fa capo a Khaled Mashaal. In passato Mashaal era il volto più noto di Hamas, ma ora Haniyeh va e viene per le capitali arabe e viene percepito come più attendibile. In questo contesto, si può comprendere la frustrazione di Mashaal e la sua dichiarata intenzione di lasciare l’organizzazione per costituire eventualmente un gruppo rivale come ulteriore ramo della Fratellanza Musulmana. Il che significherebbe un ritorno al solco islamico a scapito dell’identità nazionale palestinese.
Quel che rimane è l’orfana riconciliazione con Fatah, una mossa osteggiata da Hamas e soci. Non c’è possibilità di tenere elezioni, non c’è possibilità di riavvicinamento, e la politica palestinese a due teste è ormai diventata a tre teste: Hamas dell’interno, Hamas all’estero e Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Ciascuna dirigenza ha la sua propria agenda politica e le sue figure chiave.
Una annotazione in chiusura. Hamas si era guadagnata una gloria provvisoria a livello globale per effetto del cosiddetto blocco sulla striscia di Gaza. Ora, però, che “l’assedio” non è più in atto e il confine con l’Egitto è aperto al passaggio di persone e beni, come farà l’organizzazione a sopravvivere sul fronte delle pubbliche relazioni? Questo potrebbe essere il problema peggiore, per un gruppo che campa di slogan anti-israeliani e che ora si sta infrangendo contro gli scogli della realtà.

(Da: YnetNews, 27.1.12)

Nella foto in alto: Guy Bechor, autore di questo articolo