I negoziatori di Camp David: “Attenti alla pretesa del ritorno”

È il nodo attorno a cui ruota la soluzione due popoli-due stati

image_1901Nel luglio 2000 l’allora primo ministro israeliano Ehud Barak portò a Camp David una squadra di negoziatori israeliani per 15 giorni di discussioni dettagliate e a tratti molto accese con i loro interlocutori palestinesi. L’obiettivo era quello di concludere uno storico accordo sullo status finale, e i negoziatori affrontarono le questioni più controverse del contenzioso con un’energia e un grado di approfondimento come fino allora non si era mai tentato. Ma il tentativo fallì e il resto, cose si usa dire, è storia.
Oggi, all’approssimarsi del previsto summit di Annapolis, Gilead Sher, allora capo dello staff di Barak e uno dei capi della squadra negoziale israeliana a Camp David, dice d’essere convinto che l’attuale primo ministro Ehud Olmert ha assolutamente ragione quando chiede che i palestinesi riconoscano esplicitamente Israele come stato del popolo ebraico. Corollario del riconoscimento di Israele come stato del popolo ebraico è il rigetto del cosiddetto “diritto al ritorno” dei palestinesi all’interno di Israele. “Il diritto al ritorno è improponibile e inapplicabile in qualunque parte dello stato di Israele – sottolinea Sher – e questo i palestinesi lo sanno molto bene: è un punto su cui c’è la massima convergenza d’opinioni sia della destra che della sinistra israeliana”.
Sher suggerisce tre modalità per affrontare la questione dei profughi palestinesi: riabilitazione nel futuro stato palestinese, insediamento definitivo nei luoghi dove attualmente vivono, reinsediamento in paesi terzi se la comunità internazionale è disposta ad assorbirne una quota.
Nonostante le opposizioni interne in Israele, Sher si dice convinto che Olmert stia facendo la cosa giusta. “In questa regione – spiega – le condizioni non sembrano mai quelle buone, il momento non sembra mai quello giusto, le dirigenze non sembrano mai all’altezza. Io invece sono molto favorevole a un processo che faccia fare passi avanti verso la soluzione due popoli-due stati”. Sher esprime la cauta speranza che possa essere fatto un “modesto progresso” se gli obiettivi vengono ben definiti e il processo ben gestito e organizzato, nonché facilitato da una parte terza. Circa i palestinesi, Sher sostiene che Israele dovrebbe essere più interessato alla loro stabilità che al processo di democratizzazione.
Un altro membro della squadra negoziale di Camp David 2000, Dan Meridor, avverte che, quand’anche i palestinesi accettassero il principio di uno stato ebraico, potrebbero comunque continuare a rivendicare il cosiddetto “diritto al ritorno”. “Ciò che conta – dice – è un accordo in cui sia ben specificato che il conflitto finisce senza diritto al ritorno dentro Israele”. Secondo Meridor, che al tempo di Camp David presiedeva la commissione esteri e difesa della Knesset, sarebbe un grave errore lasciare aperta la questione del “ritorno”. Viceversa, se si riuscirà a sciogliere questo nodo sarà possibile trovare dei compromessi anche sulle altre questioni più scottanti come i confini e Gerusalemme. Tuttavia Meridor non crede che l’attuale presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e il suo primo ministro Salaam Fayad siano abbastanza forti da poter attuare e far rispettare ai palestinesi qualunque accordo che venisse raggiunto.
L’ex capo di stato maggiore Amnon Lipkin-Shahak, anche lui un negoziatore di Camp David, ritiene che, se Israele manterrà una posizione ferma, i palestinesi alla fine dovranno cedere sulla rivendicazione del “ritorno”. “Tutti i leader palestinesi che sostengono un accordo di pace con Israele capiscono perfettamente che i profughi palestinesi (e loro discendenti) non potranno stabilirsi in Israele – spiega – Sono disposti ad ammetterlo adesso? La risposta è no. Avranno abbastanza coraggio per dirlo più avanti? Io credo di sì”.

(Da: Jerusalem Post, 13.11.07)

Nell’immagine in alto: Israele scompare nelle mappe sul “ritorno” della pubblicistica palestinese