“I nostri giovani terroristi, figli di una cultura di morte”

La sofferta denuncia di un intellettuale arabo che non si accontenta delle spiegazioni di comodo

Da un articolo di Abd Al-Hamid Al-Ansari

image_1734I giovani che sono diventati strumenti di assassinio e bombe umane sono figli della cultura dell’odio, sono il frutto di una cultura fanatica e di un’ideologia estremista che considerano la vita, i suoi valori, la sua bellezza come cosa del tutto priva di importanza. In definitiva le motivazioni politiche, economiche, sociali e religiose che spingono questi giovani a farsi esplodere si riassumono in una singola causa di fondo: la cultura dell’odio.
Questi giovani nel fiore degli anni sono diventati i nemici delle loro società, votati alla vendetta, all’odio e alla distruzione. Sono i nostri figli terroristi, cresciuti nel nostro seno, allevati nella nostra cultura, istruiti dalle nostre scuole, dai nostri pulpiti, dalle fatwe dei nostri religiosi. Dunque, cos’è che fa loro preferire la morte? Non ho altra risposta se non il fatto che non siamo stati capaci di far loro amare la vita. Abbiamo insegnato loro a morire nel nome di Allah, ma non abbiamo insegnato loro ad amare, a costruire, ad aiutare la società nel nome di Allah. Abbiamo insegnato loro che il patriottismo significa attaccare l’America e opporsi all’imperialismo, ma non abbiamo insegnato loro che il patriottismo è amore, lealtà e attaccamento alla propria patria…
Come potrebbe non votarsi all’estremismo questo essere infelice che è l’individuo arabo e islamico, immerso in un’atmosfera onnicomprensiva di estremismo, imprigionato nei vincoli della repressione e dei divieti, assediato da idee di intimidazione e sopraffazione e di strazio praticamente senza fine? È questo ciò che accompagna questa povera creatura dalla nascita alla morte, a partire dalle terribili minacce sui tormenti dell’oltretomba, e sui complotti dei nemici che aspettano al varco l’islam e i musulmani, e sulla lunga lista di proibizioni che rendono la sacra vita – dono del Creatore – una prigione di dolore dalla quale l’individuo cerca solo di fuggire verso il Paradiso e le sue seducenti giovinette
Come se tutto ciò non bastasse, abbiamo anche arruolato la polizia religiosa perché pedinasse la gente, ne restringesse le libertà, la spiasse, interferisse nei suoi affari personali. E dunque come potrebbero non esservi estesi fenomeni di tensione e angoscia nell’anima delle gente?…
Si vada ad ascoltare un sermone del venerdì: vi si incontra un predicatore infuriato con il mondo, in collera con la civiltà, che sparge veleni di odio e inimicizia. Si esce dalla moschea risentiti e furibondi.
I giovani nel resto del mondo si dedicano alla musica, alle arti e si godono i piaceri della vita. Creano, scoprono e contribuiscono alla crescita della cultura delle loro società. Noi invece impegniamo i nostri giovani in dispute di diritto religioso sul velo, sulla barba, sulla lunghezza degli abiti e sul saluto da riservare ai cristiani, o li impegniamo in dispute politiche e ideologiche da adulti, o li spingiamo ad andare in Iraq e in Afghanistan a commettere suicidio.
L’odio è una cultura di divieti, e il risultato di questa nostra visione del mondo come di un nemico che ci aspetta al varco. Molti fattori hanno contribuito a formare questa visione del mondo, compresi i messaggi religiosi ancorati nella paura dei complotti, i messaggi educativi che producono nei giovani alienazione dai tempi moderni, e un gran numero di pubblicazioni ad opera di nazionalisti e Fratelli Musulmani che da centocinquant’anni diffondono odio verso l’altro e teorie cospirative.
Quello di cui abbiamo bisogno è una cultura che ristabilisca l’importanza della vita e il valore dell’individuo, e che spinga i giovani ad amare le arti e le discipline umane.

(Da: Jerusalem Post, 18.06.07)

Nella foto in alto: Abd Al-Hamid Al-Ansari, già preside della facoltà di diritto e diritto islamico dell’Università del Qatar, ha recentemente pubblicato diversi articoli su giornali del Golfo dedicati al terrorismo e alle sue radici. Quelli qui riportati sono brani tratti da un editoriale che Abd Al-Hamid Al-Ansari ha pubblicato lo scorso 15 maggio sul quotidiano del Kuwait Al-Siyassa. L’articolo è stato diffuso in versione inglese dal Middle East Media Research Institute (www.memri.org).