I nuovi termini del processo diplomatico

Abituati da anni a pretendere concessioni solo per accettare di negoziare, i dirigenti palestinesi devono fare i conti con il nuovo approccio americano

Di Eyal Zisser

Eyal Zisser, autore di questo articolo

Le prime mosse del presidente americano Donald Trump in Medio Oriente hanno avuto grande effetto. La sua visita nella regione, con la tappa in Israele, e i suoi discorsi subito sostenuti dai fatti – l’attacco missilistico di aprile dopo l’uso di armi chimiche da parte del regime siriano – hanno attestato che le intenzioni sono serie, e non solo a parole.

Poco dopo, tuttavia, è arrivata la frustrazione. La situazione in Siria rimane cupa, con il presidente Bashar Assad che continua a mantenere il suo potere. Nel Golfo Persico gli stati sunniti “moderati” hanno creato un fronte unito: non contro l’Iran, ma contro il Qatar. Per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese, sembra che ogni passo avanti, come la promessa di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme, sia seguito da due passi indietro.

Sotto questo aspetto l’arrivo in Israele dei consiglieri di Trump, il genero Jared Kushner e il mediatore Jason Greenblatt, sembra indicare che la Casa Bianca non intende recedere né rallentare, e che rimane determinata a promuovere la pace tra Israele e palestinesi.

In Israele molti sono scettici circa le possibilità di un’efficace iniziativa diplomatica. Perché, a dispetto di ciò che Washington e altre cancellerie possono pensare, il conflitto israelo-palestinese non è affatto un conflitto su beni immobili: un semplice compromesso sul prezzo o sulle dimensioni degli appezzamenti non basta a risolverlo.

Ma quelli che appaiono più spaventati dai tentativi americani di riavviare i negoziati sono in realtà i palestinesi. Nel corso degli anni di varie amministrazioni americane, si erano abituati a vedere gli Stati Uniti che strappavano concessioni a Israele non in cambio della pace, ma solo della promessa dei palestinesi di accettare di sedere al tavolo negoziale.

Lo scorso 15 giugno l’Autorità Palestinese ha intitolato una piazza di Jenin alla memoria del “Martire Khaled Nazzal”, il comandante terrorista del FDLP che progettò il massacro del 15 maggio 1974 nella scuola israeliana di Ma’alot (uccisi 22 scolari e 4 adulti). Pianificò anche un attacco che portò all’assassinio di 4 ostaggi in un appartamento di Beit Shean (11 novembre 1974) e un attacco il 2 aprile 1984 con mitra e granate a Gerusalemme (un morto e 47 feriti)

In questo modo, negli anni scorsi i palestinesi hanno portato a casa, una dopo l’altra, una serie di concessioni israeliane che hanno finito col costituire un corpus di concetti dati per acquisiti, che i palestinesi considerano un conveniente punto di partenza per ricominciare a negoziare e chiedere concessioni nei prossimi round di colloqui.

Ma questa volta l’approccio americano appare piuttosto diverso. Washington non fa richieste preliminari a Israele quanto piuttosto ai palestinesi, che ora sono chiamati a dimostrare la sincerità del loro dichiarato proposito di combattere il terrorismo. Dopo tutto, per Trump il terrorismo è terrorismo, senza troppi aggettivi, e gli stipendi e gli onori tributati dall’Autorità Palestinese agli assassini e alle loro famiglie risultano inaccettabili.

Ciò rappresenta una sfida non da poco per la dirigenza palestinese, nel momento in cui volesse riavviare i negoziati con Israele: deve rinunciare a ulteriori concessioni preliminari israeliane e, contemporaneamente, deve affrontare l’opinione pubblica palestinese che sostiene e glorifica gli attentati terroristici contro gli israeliani. Come supereranno questa sfida?

(Da: Israel HaYom, 20.6.17)