I palestinesi e il destino di una eterna nakba auto-inflitta

Non c’è pace senza compromesso. Dopo 150 anni sarebbe sensato che i palestinesi optassero per una strada diversa invece di continuare a fomentare odio e rifiuto. Ma a quanto pare, non accadrà tanto presto

Di Eyal Zisser

Eyal Zisser, autore di questo articolo

Il 15 maggio 1948, il sabato in cui scadeva il Mandato Britannico sulla Palestina, gli eserciti dei paesi arabi vicini attaccarono la comunità ebraica d’Israele (l’yishuv) devastando tutto ciò che incontravano. Il loro obiettivo era impedire la nascita di quello stato ebraico in Terra d’Israele che i leader dell’yishuv avevano dichiarato indipendente il giorno prima, venerdì 14 maggio.

Ogni singola comunità ebraica che venne conquistata dagli eserciti arabi venne ridotta in macerie, i difensori sopravvissuti alle battaglie fatti prigionieri o giustiziati. Non un solo ebreo poté restare nelle aree conquistate dagli arabi. Nel quartiere ebraico della Città Vecchia di Gerusalemme la Legione araba giordana distrusse tutte le sinagoghe, alcune antiche di secoli. Atrocità simili si verificarono a Gush Etzion (poco a sud di Gerusalemme) e a Mishmar Hayarden, sulle rive del fiume Giordano, così come più a sud nei kibbutz di Nitzanim e Yad Mordechai. Il nascente stato d’Israele, tuttavia, riuscì a sconfiggere i nemici, il suo esercito fermò l’avanzata delle forze arabe e alla fine le ricacciò indietro.

L’invasione militare rappresentava la seconda fase della campagna per la Terra d’Israele, iniziata già alla fine del 1947 con la violenta opposizione al piano di spartizione approvato dalle Nazioni Unite. Gli arabi del posto (sostenuti dai paesi arabi circostanti) rifiutarono la proposta dell’Onu e iniziarono ad attaccare le comunità ebraiche e a bloccare le strade che le collegavano tra loro (gli attacchi ai convogli blindati verso la Gerusalemme assediata, l’imboscata al convoglio diretto al kibbutz Yehi’am, la sorte del “Convoglio dei 35” diretto a Gush Etzion, il massacro del convoglio medico-sanitario Hadassah non sono che alcuni esempi del pesante tributo di sangue pagato in quella campagna). Gli arabi, tuttavia, non raggiunsero il loro obiettivo e alla fine la parte ebraica stava avendo il sopravvento. A quel punto i paesi arabi decisero di intervenire nella guerra e invadere il nuovo stato d’Israele.

Ogni anno dal 1998 i palestinesi celebrano l’anniversario della nascita di Israele coma una “catastrofe” (nakba) da cancellare: Israele deve scomparire dalla carta geografica

La guerra lanciata dagli stati arabi fu disastrosa per gli arabi della Terra d’Israele. Molti di loro divennero profughi, e va da sé che i paesi arabi invasori preferirono tenere per sé i territori conquistati (la Cisgiordania con Gerusalemme est, e la striscia di Gaza) senza essere sfiorati dall’idea di permettere la creazione di uno stato arabo palestinese in nessuna di quelle aree. Quel disastro, dunque, non fu opera di qualche potenza superiore, e il tentativo di incolpare gli ebrei per essersi battuti contro coloro che erano venuti a ucciderli, e per aver vinto, non regge alla prova dei fatti storici. Quel disastro fu opera degli stati arabi, della popolazione araba locale e dei loro leader che rifiutarono ogni proposta di compromesso, optarono per la violenza e persero tutto.

Qual è l’insegnamento che ne hanno tratto da allora gli arabi palestinesi? Evidentemente quello di continuare a ritentare all’infinito ciò fallirono nel 1948, anziché trarre l’ovvia conclusione che la violenza avrebbe generato per loro solo ulteriori catastrofi (nakba significa catastrofe ndr) e che solo l’accettazione e il dialogo potrebbero districarli dal ciclo interminabile di sconfitte e spargimenti di sangue.

Una chiara espressione della scelta palestinese (e di alcuni arabi di Israele) di restare aggrappati al passato sono le “celebrazioni” nel giorno della Nakba. Non si tratta di eventi di riflessione e commemorazione bensì di istigazione, aizzamento e odio che inviano un unico messaggio, certamente molto chiaro per il pubblico ebraico che li osserva. E cioè: non siamo disposti ad accettare l’esistenza dello stato d’Israele e gli ebrei devono sapere che questo conflitto è assoluto, è “un gioco a somma zero” in cui la vittoria palestinese significherà l’eradicazione dello stato ebraico.

È possibile, ovviamente, minimizzare queste manifestazioni di odio e ciò che rappresentano, ma non si può restare indifferenti al messaggio che implicano. Il succo è: sebbene in questo momento Israele sia forte e potente, è sempre e comunque un paese “in libertà condizionata” che, al fondo, non accettiamo né ammettiamo e quando verrà il momento e si presenteranno le condizioni ci solleveremo contro di esso per farla finita. Questo messaggio, che spesso provoca violenze, non trova radice nella crisi economica e nemmeno nella rabbia per quanto accade (o si presume che accada) sul Monte del Tempio, bensì nel rifiuto puro e semplice dello stato d’Israele.

Lo stato d’Israele vive con la spada in pugno sin dall’inizio e in una regione complicata come questa dovrà continuare a combattere per il futuro prevedibile. Gli arabi palestinesi non sono stati capaci di sconfiggerlo, ma fomentando e alimentando la cultura della nakba non solo nuocciono a Israele, ma fanno del male principalmente a se stessi. Dopo 150 anni di conflitto sarebbe sensato che optassero per una strada diversa invece di continuare a incoraggiare e celebrare odio e istigazione. Ma questo, a quanto pare, non accadrà giacché i palestinesi sembrano essenzialmente decisi a non cambiare strada, condannando se stessi a passare di catastrofe in catastrofe.

(Da: Israel HaYom, 15.5.22)

L’Autorità Palestinese continuerà a versare vitalizi ai terroristi detenuti in Israele e ai famigliari dei terroristi morti compiendo attentati. Lo ha ribadito domenica il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen nel corso delle celebrazioni della Giornata della Nakba. Per decisione di Yasser Arafat, dal 1998 i palestinesi celebrano l’anniversario della nascita di Israele coma la “Giornata della Catastrofe” (nakba). Nell’occasione Abu Mazen e altri esponenti palestinesi hanno anche ribadito il perenne impegno per il cosiddetto “diritto al ritorno” dei profughi palestinesi e dei loro discendenti all’interno di Israele. “I palestinesi non accetteranno di rinunciare a nessuno dei loro diritti” ha detto Abu Mazen, mentre il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha esortato le Nazioni Unite a far applicare tutte le risoluzioni relative ai palestinesi compreso – a suo dire – il “diritto al ritorno”. “Il nostro popolo – ha detto Shtayyeh – insiste sempre di più sul diritto al ritorno: rimarremo impegnati e fedeli ai nostri principi e continueremo a lottare finché non saranno tutti realizzati”. Shtayyeh ha sottolineato l’importanza di preservare l’Unrwa (l’agenzia Onu esclusivamente dedita al mantenimento perpetuo dei profughi palestinesi e dei loro discredenti): “Abbiamo a cuore questa istituzione quanto abbiamo a cuore il nostro popolo disperso – ha detto Shtayyeh – Oggi ci sono 6,4 milioni di profughi che aspettano il diritto al ritorno”.  Anche Ahmed Abu Holy, capo del dipartimento profughi dell’Olp, ha affermato che i palestinesi non accetteranno nessuna “soluzione parziale” al problema dei profughi, e ha sottolineato l’importanza di mantenere l’Unrwa così com’è e di respingere qualsiasi tentativo di demandare le sue funzioni ad altri organismi delle Nazioni Unite (come l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati che si occupa di tutti gli altri profughi del mondo). In una dichiarazione rilasciata in occasione della Giornata della Nakba, Hamas ha affermato che Israele non ha alcuna “legittimità né sovranità su nemmeno un centimetro della Palestina storica”, che il “popolo palestinese rimarrà impegnato verso Gerusalemme, eterna capitale della Palestina dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo]” e che Hamas proseguirà “la lotta armata” contro Israele “fino a quando non saranno realizzate tutte le aspirazioni del nostro popolo”.
(Da: Jerusalem Post, israele.net, 15.5.22)