I palestinesi hanno diritto a un governo rappresentativo

"Come molti altri palestinesi anch’io sono stato contento di sentire che il comandante della polizia di Gaza era stato rimosso".

di Daoud Kuttab, giornalista palestinese, direttore Institute of Modern Media

image_298Come molti altri palestinesi, anch’io sono stato contento di sentire che il comandante della polizia di Gaza, Ghazi Jabali, era stato rimosso. Non l’avevo mai incontrato di persona, ma ebbi occasione di avere con lui una sgradevole conversazione telefonica. Jabali volle infatti parlare con me il giorno in cui venni rilasciato dopo sette giorni di detenzione in una cella della polizia dell’Autorità Palestinese. Ero stato incarcerato dalla polizia di Ramallah senza nessuna accusa né spiegazione. Il mio arresto, che senza alcun dubbio era stato ordinato da qualche politico palestinese di alto livello, venne eseguito nel contesto di una emittente televisiva che gestivo, sulla quale avevo mandato in onda una versione senza tagli di una riunione del Consiglio Legislativo (parlamento) palestinese. La riunione verteva sul tema della corruzione.
Nella telefonata, Jabali non diede alcuna spiegazione per il mio arresto, né si scusò per la mia ingiusta detenzione. Tutto ciò che voleva dirmi era di non parlare con la stampa. Una volta rilasciato, naturalmente, ho parlato con la stampa e ho ribadito il diritto della gente di sentire che cosa dicono i rappresentanti che ha eletto, specialmente quando si tratta di corruzione.
Come capo della polizia, Jabali non solo eseguiva gli ordini dei politici dell’Autorità Palestinese senza alcun rispetto per le dovute procedure. Egli cercava anche di coprire le sue proprie attività corrotte, mettendo il bavaglio alla libera espressione. Ho parlato con molti altri che mi hanno raccontato storie di arresti simili alla mia.
Ci troviamo di fronte al totale fallimento da parte del capo della polizia di tenere un comportamento che rifletta ciò che la gente si attende, sia sul piano professionale che su quello personale.
La mia soddisfazione per la rimozione di Jabali, tuttavia, è stata di breve durata. La persona scelta per sostituirlo a capo dell’apparato di sicurezza palestinese era – se possibile – persino peggio e ancora più controversa dello stesso Jabali. La reputazione di Musa Arafat (nipote del presidente dell’Autorità Palestinese Yasser Arafat) come capo della sicurezza militare era assai scarsa. Era particolarmente inviso agli occhi dei giovani quadri di Fatah che da tempo lo accusano, fra l’altro, di aver fatto irruzione negli uffici della milizia Tanzim di Fatah, a Ramallah.
Per un certo periodo Musa Arafat si era tenuto fuori dai riflettori giacché si erano avuti alcuni attentati alla sua vita. Il suo ritorno sulla scena nella veste di uno dei tre più importanti capi delle forze di sicurezza palestinesi appariva agli occhi della nuova generazione di capi di Fatah come un fatto scandaloso. Significava correggere un errore con un errore ancora peggiore.
Ora sembra che il presidente Yasser Arafat abbia in parte fatto marcia indietro riguardo alla nomina di Musa Arafat. Ma il problema va ben al di là delle questioni personali. Il punto è come vengono prese, oggi, le decisioni nella leadership palestinese. Yasser Arafat fa tante riunioni a ogni livello, ma intanto tiene per sé le decisioni veramente importanti e non condivide tali decisioni né con il governo, né con il ramo legislativo, e nemmeno con molti del suo stesso partito Fatah.
La questione chiave, naturalmente, è proprio Fatah. Questa fazione, presieduta da Arafat e che governa di fatto l’Autorità Palestinese, non tiene elezioni interne da anni. L’Assemblea Generale, che dovrebbe eleggere i cento membri del Consiglio Rivoluzionario e i circa venti membri del Comitato Centrale, non si riunisce dagli anni ottanta. In tutto, dalla sua fondazione (nel 1959), l’Assemblea Generale è stata riunita solo cinque volte. Marwan Barghouti, attualmente in un carcere israeliano, si era dato molto da fare per organizzare elezioni locali nei territori palestinesi allo scopo di approntare dei rappresentanti eletti in vista di una sesta convocazione dell’Assemblea Generale. L’arresto di Barghouti [condannato per omicidi di matrice terroristica] ha interrotto questi sforzi e ha lasciato campo libero al genere di lotta di potere che oggi vediamo.
In passato, alcuni membri fondatori di Fatah come Khalil al-Wazir (Abu Jihad) o Salah Khalaf (Abu Iyad) o Khaled Hassan facevano in qualche misura da bilanciere all’interno del movimento, e spesso è stato attribuito loro il merito di aver posto un freno ad alcune delle decisioni più impopolari da parte del capo. L’assenza di questi tre uomini (il primo ucciso dagli israeliani, il secondo dal gruppo di Abu Nidal, il terzo morto per cause naturali) ha lasciato Fatah senza nessun uomo forte in grado di contrastare decisioni disastrose come quest’ultima di nominare Musa Arafat.
Naturalmente ci sono molti altri fattori che non devono essere dimenticati. Il lungo confinamento di Arafat fa sì che molte sue decisioni si basino su informazioni di seconda mano circa la situazione a Gaza. […] Anche gli alti e bassi del rapporto fra Arafat e l’ex capo della sicurezza palestinese Mohammed Dahlan (chiaramente un personaggio di grande importanza nella striscia di Gaza) ha contribuito a creare la situazione attuale.
Che fare? Il processo decisionale al più alto livello della dirigenza palestinese deve diventare inclusivo di tutte le parti in causa. Il processo, all’interno sia della fazione di governo Fatah che della altre fazioni, deve diventare più rappresentativo. Ora più che mai ciò che occorre è un effettivo processo che permetta a Fatah di mettere ordine in casa propria, e creare un meccanismo capace di convertire un movimento di guerriglia in un ente realmente coinvolto nella edificazione di uno stato.

(Da: Jerusalem Post, 19.07.04)

Nella foto in alto: Musa Arafat a Gaza, fra le sue guardie del corpo