I paradossi delle idee fisse

Il semplice buon senso dice che non si può far tornare la storia al 1947 o al 1967, eppure è questo che i palestinesi continuano ad avanzare come richiesta non negoziabile

Di Ira Sharkansky

Ira Sharkansky, autore di questo articolo

E’ uno dei più grandi rebus del nostro tempo, apparentemente insolubile. O perlomeno, insolubile nella situazione attuale. E la situazione attuale non si è creata tra ieri e stamattina. Ci accompagna, a seconda di quando si inizia a contare, da almeno settant’anni, o forse da più di un secolo.

La confusione inizia con la storia della Palestina. O meglio, con la mancanza di storia della Palestina: non c’è mai stato un paese di Palestina pienamente riconosciuto come tale dai suoi vicini o da quella che si può in prima approssimazione definire la comunità internazionale.

I palestinesi fanno riferimento spesso e volentieri al diritto internazionale, ma gli aspetti pertinenti del diritto internazionale hanno tante varianti di interpretazione quanti sono i commentatori, e il diritto internazionale non prevede né un organo legislativo né un giudice dotati della comprovata facoltà di definire e far applicare la retta interpretazione. Il che genera notevoli paradossi.

Se si inizia la storia con la Dichiarazione Balfour e il conferimento alla Gran Bretagna della responsabilità su questa regione, si incontrano innumerevoli risoluzioni, accordi, proposte, dichiarazioni di intenti e interventi sul terreno. La guerra scatenata dagli arabi nel 1948 ha praticamente spazzato via tutto quanto era stato detto e fatto in precedenza. Ma è assai singolare come “il mondo” abbia accettato i cambiamenti territoriali causati dalla guerra con l’unica eccezione di Gerusalemme. A quanto pare, solo la clausola su Gerusalemme della risoluzione Onu del 1947 è ancora sottoscritta da tutti, ad eccezione di Israele, mentre tutte le altre disposizioni previste da quella risoluzione sono finite nella pattumiera della storia. Ogni risoluzione Onu ha i suoi partigiani che la descrivono come la più autorevole; ma come districarsi quando le risoluzioni si contraddicono fra loro?

“Il semplice buon senso dice che non si può far tornare la storia al 1947 o al 1967, eppure è questo che i palestinesi continuano ad avanzare come richiesta non negoziabile” (nella foto: il mural palestinese cancella Israele dalla carta geografica)

La Palestina è diventata il beniamino delle persone e dei governi che si considerano illuminati, e che insistono nel voler applicare il loro concetto di giustizia a dispetto del fatto che i palestinesi non hanno mai fatto nemmeno una parte di ciò che si sperava o ci si aspettava che facessero. Il semplice buon senso ci dice che non si può far tornare indietro la storia al 1947 o al 1967, eppure è questo che la dirigenza palestinese continua ad avanzare come richiesta non negoziabile. Le richieste non negoziabili sono ottimo materiale per canzoni e slogan da corteo, ma non fanno fare un solo passo avanti a fronte di un paese e a uno stato, Israele, molto ben radicato e che chiedere di intavolare negoziati per arrivare a un compromesso.

Ciò che più di recente ha prodotto furibonde proteste e risoluzioni minacciose è la decisione israeliana di costruire circa tremila unità abitative in aree di Gerusalemme e della Cisgiordania che sono oltre le linee armistiziali pre-‘67. Salvo poche eccezioni, tutte quelle abitazioni sorgerebbero entro i grandi blocchi di insediamenti a ridosso della ex-linea armistiziale o in aree che fanno parte della municipalità stabilita da Israele per Gerusalemme sin dal 1967. Si può discutere se la “politica degli insediamenti” di Israele sia dissennata o moderata o pragmatica. Ma in ogni caso è assai improbabile che Israele possa in futuro sgomberare 800mila suoi cittadini che vivono, talvolta da generazioni, al di là di quelli che altri considerano arbitrariamente confini intoccabili.

Conosciamo bene l’argomento dei critici, locali e internazionali, secondo cui Israele così facendo finirà col dover inglobare tutta la terra di Palestina perdendo la propria maggioranza ebraica o, in alternativa, il proprio carattere democratico. Ma non c’è un solo partito o movimento significativo, in Israele, che sosterrebbe l’annessione dei grandi insediamenti palestinesi di Cisgiordania e Gaza.

“Ebrei e arabi si mescolano ogni giorno nel lavoro, nelle istituzioni, nelle università” (nella foto: studentesse arabe all’Università di Gerusalemme)

La realtà delle cose è molto più complessa rispetto all’immagine che circola dei rapporti fra Israele, i suoi vicini palestinesi e i suoi abitanti arabi, fra cui quelli di Gerusalemme. Per la maggior parte, le autorità israeliane riconoscono vari gradi di autonomia agli arabi di Israele e di Gerusalemme est. E non si smette mai di discutere, fra ebrei e con gli arabi, su cosa sarebbe più giusto e più equo. Sostanzialmente Israele riconosce loro gli stessi diritti politici e servizi sociali fondamentali dei cittadini ebrei israeliani, che superano di molto quelli che gli arabi si vedrebbero riconosciuti nella maggior parte, se non la totalità, dei paesi a maggioranza arabo-musulmana e nel territorio della stessa Autorità Palestinese. Non c’è dubbio che gli arabi patiscono alcune forme di disuguaglianza, più o meno come accade alle minoranze in quasi tutte le democrazie. Ma nonostante le tensioni, ebrei e arabi si mescolano ogni giorno nel lavoro, nelle istituzioni, nelle università nei negozi, negli ospedali, nello sport, nei trasporti pubblici e nei quartieri, senza che ciò susciti quasi mai reazioni né incidenti.

Per evitare di intromettersi in una cultura diversa e almeno in parte ostile, Israele è stato restio ad applicare le sue leggi contro la poligamia e sulla gestione urbanistica fra le famiglie e le comunità arabe. Certe tribolazioni delle donne e dei bambini si possono attribuire alla cultura beduina o al fatto che Israele non ha imposto in quella comunità il rispetto delle sue leggi sulla monogamia. Passeggiare per i meandri delle stradine di una città araba può essere esotico o frustrante per un estraneo, ma può anche essere visto come il modo con cui Israele si è adattato al rispetto di altri stili di vita.

La Palestina è lungi dall’essere un’unica entità con una dirigenza diffusamente riconosciuta dai suoi abitanti. Ogni importante distretto palestinese in Cisgiordania (Nablus, Ramallah, Gerusalemme est, Betlemme, Hebron) è un mondo a sé con la sua economia, la sua politica, le sue fedeltà tribali, sebbene vi sia una certa integrazione tra loro e con l’economia e la politica israeliana. Cisgiordania e striscia di Gaza sono ancora più separate fra loro, e antagoniste, nonostante i saltuari proclami per l’unità palestinese.

Tutto questo significa che la classica “soluzione a due stati” ha poco senso e che forse non è un caso se i palestinesi ne hanno sistematicamente boicottato l’attuazione. E forse sarebbe un fattore di maggiore destabilizzazione. Meglio pensare a soluzioni alternative, come ad esempio una multi-comunità, che in buona misura è già una realtà di fatto anche se non viene né proclamata né riconosciuta in modo formale.

Rimangono degli estremisti che cercano vendetta e che cercano di spingere le cose verso lo scontro che loro adorano. E rimangono anche singole tragedie di israeliani e palestinesi che si trovano nel posto sbagliato al momento sbagliato. Senza nulla togliere al dolore individuale e familiare che ne consegue, resto il fatto che nel corso degli anni le tragedie causate dalla violenza dell’estremismo nazionalista sono solo una piccola frazione di quelle causate fra israeliani e palestinesi dai comuni incidenti stradali.

La pace è possibile? Dipende dalle aspettative. I sogni irenici di coloro, in Israele e altrove, che pensano che basti essere molto umani e molto angustiati per i palestinesi forse non potranno mai realizzarsi. Ed è probabile che continueranno ad esserci tensioni tra gli israeliani e coloro che considerano gli israeliani sempre troppo preoccupati per la loro sicurezza, o addirittura dalla parte sbagliata della storia.

Eppure l’ostilità potrebbe diminuire se costoro dessero uno sguardo diverso alla versione palestinese della storia, quella che definisce Gerusalemme come storicamente judenrein e con il monopolio dell’islam sulla sua santità.

Ogni commento è ben accetto, ma si resista alla tentazione di offrire la ricetta per la soluzione. Tanti vi hanno provato e ne sono usciti furiosi e frustrati: e si trattava di persone dotate di conoscenza, denaro e potere politico.

(Da: Jerusalem Post, 7.2.17)