Ebrei e arabi d’Israele nella lotta al coronavirus

Come dice il vecchio adagio, ogni crisi porta anche con sé i semi di nuove opportunità

Editoriale del Jerusalem Post

13 aprile 2020: il medico arabo israeliano Abed Zahalka porta il rotolo della Torah nell’unità covid-19 del Mayanei Hayeshua Medical Center di Bnei Brak (clicca per ingrandire)

Il videoclip trasmesso la scorsa settimana dalla tv Canale 13 era decisamente toccante. Due infermieri con le tipiche tute protettive bianche indossate da coloro che si prendono cura dei pazienti affetti da coronavirus sono stati colti mentre posizionavano con grande cura i tefillin (filatteri rituali ebraici) sul braccio di un paziente in quarantena, in un ospedale di Tel Aviv. Ciò che rendeva l’immagine profondamente commovente era che i due infermieri erano arabi israeliani. “B’ezrat Hashem” [con l’aiuto di Dio] ha risposto Khalil Ghazawi, uno dei due infermieri, quando l’intervistatore gli ha detto che sembrava sapere piuttosto bene come si indossano i tefillin.

Pochi giorni dopo è emersa un’altra immagine commovente, questa volta di un medico arabo, Abded Zahalka, anche lui bardato con indumenti protettivi simili a una tuta spaziale, abbracciato a un rotolo della Torah drappeggiato nel tallet (scialle di preghiera) mentre lo portava a ebrei religiosi nel centro medico Ma’aynei Hayeshua, a Bnei Brak, per la loro preghiera quotidiana. Questa foto ha fatto a gara, come spazio sui mass-media israeliani, con le immagini dei soldati in uniforme e mascherina che distribuiscono pacchi di cibo ai residenti dei villaggi arabi di Kafr Yasif e Deir el-Asad.

Ogni crisi, dice il vecchio adagio, porta anche con sé i semi di nuove opportunità. E una delle più grosse opportunità che il coronavirus ha offerto alla società israeliana è la possibilità di ricucire i rapporti tra le comunità ebraica e araba del paese, messi seriamente alla prova negli ultimi due anni da contestati provvedimenti di legge e dalla retorica divisiva di vari politici sia ebrei che arabi.

Infermieri arabi israeliani aiutano un anziano ricoverato ebreo a indossare i tefillin (clicca per il video)

Nessuno si illude che l’epidemia possa fare piazza pulita delle profonde differenze ideologiche esistenti fra ebrei e arabi d’Israele. Ma ciò che può fare è alimentare simpatia ed empatia: due ingredienti fondamentali per far sì che le disparate comunità si vedano reciprocamente in modo positivo.

Simpatia significa provare compassione per la difficile situazione di qualcun altro e mostrarsi preoccupati per lui: e appariva evidente nella distribuzione di quei pacchi di cibo ad opera delle Forze di Difesa israeliane. Empatia significa sapersi mettere nei panni di un altro, calarsi nella sua condizione e, quando possibile, cercare di alleviarla: ed è ciò che ha fatto l’infermiere Ghazawi. Entrambi questi sentimenti sono essenziali per vedere l’altro non come un terrificante “Altro”, ma come qualcuno con cui c’è molta umanità in comune.

Trovare quei punti in comune è sempre stata una grande sfida, nella costruzione di ponti tra ebrei e arabi d’Israele. È sempre stato molto più facile mettere in evidenzia le differenze. Ma poi arriva il coronavirus e all’improvviso sia ebrei che arabi combattono lo stesso nemico. Come ha detto Netanyahu un mese fa, quando ha annunciato misure più rigorose per combattere l’epidemia, il coronavirus non fa distinzione tra quelli che portano la kippà, quelli che indossano la kefiah e quelli o quelle che vanno a capo scoperto. Le persone in ciascuno di quei gruppi si stanno adoperando instancabilmente per proteggere l’intera nazione dal flagello. Medici e paramedici arabi ed ebrei, religiosi e laici, stanno lavorando a proprio rischio e pericolo per salvare pazienti ebrei e arabi, laici e religiosi.

Soldati delle Forze di Difesa israeliane distribuiscono cibo e medicinai nel villaggio arabo di Deir el-Asad (clicca per ingrandire)

Un’immagine di questa crisi che rimarrà a lungo dopo la scomparsa del coronavirus è quella ormai celebre dei due paramedici, arabo ed ebreo, che pregano accanto alla loro ambulanza del Magen David Adom (Stella Rossa di David): l’ebreo in piedi rivolto verso Gerusalemme e l’arabo inginocchiato su un tappeto da preghiera rivolto verso la Mecca.

La vita, ovviamente, è molto più complicata di una singola immagine catturata in una foto, e sappiamo che esistono problemi reali e profonde incomprensioni. Ma il virus – che ha generato un nuovo livello di buona volontà tra le comunità nel momento in cui ciascuna apprezza ciò che l’altra sta facendo – offre una buona opportunità su cui costruire.

L’accordo raggiunto tra Likud e Blu-Bianco per l’istituzione di un governo di unità d’emergenza prevede al primo paragrafo l’istituzione, insieme a un comitato ministeriale sul coronavirus, di un “comitato ministeriale per la riconciliazione che operi per sanare le fratture nella società israeliana”. Questo obiettivo deve avere la massima priorità. Il governo dovrebbe adottare il più presto possibile misure concrete che mandino alla minoranza araba del paese il messaggio che le sue preoccupazioni vengono prese sul serio e che saranno affrontate. E la comunità araba – verosimilmente attraverso i suoi capi di consiglio locali anziché i parlamentari della Lista Araba Congiunta i quali, in quanto parte dell’opposizione, criticheranno e minimizzeranno in modo automatico qualsiasi proposta del governo – dovrebbe incoraggiare questa impresa e prendervi parte attiva. Ciascuna delle parti, e il paese nel suo insieme, possono solo trarre beneficio da un autentico processo di riconciliazione.

(Da. Jerusalem Post, 22.4.20)

La celebre immagine dei due paramedici israeliani, ebreo e musulmano, in pausa preghiera (clicca per la notizia)