I tic e i cliché di un’opinione pubblica che non vuole guardare in faccia la realtà

Dove sono le manifestazioni di milioni di musulmani sconvolti e indignati per l’abuso della fede fatto dai loro correligionari?

Di Derek Saker

Derek Saker, autore di questo articolo

Derek Saker, autore di questo articolo

Le azioni omicide in diversi paesi del mondo ad opera di individui islamici possono anche nascere da una combinazione di certe dinamiche familiari, disfunzioni personali e rivendicazioni politiche locali, ma ciò che prevale in queste azioni individuali è la convinzione condivisa dagli autori che esse, per quanto assassine, siano giustificate in nome dell’islam.

Noi in Israele siamo inorriditi, ma non sorpresi, di fronte al crescente numero, all’estero, di attacchi omicidi contro innocenti come quelli che noi subbiamo da fin troppo tempo. E mentre assistiamo alla duplicazione esatta di quelle atrocità al di fuori di Israele, constatiamo in modo sempre più acuto l’ipocrisia, l’ambiguità, soprattutto il pericolo che risulta dall’esplosione del terrorismo islamista, per quella che è, nel migliore dei casi, una lettura grossolanamente sbagliata di questo flagello del nostro tempo; e nel peggiore, una forma di condiscendenza, un chiudere gli occhi, quasi una condivisione che non può che perpetuare una realtà che nel futuro sarà sempre peggio.

Ipocrisia: un’auto deliberatamente lanciata contro innocenti è terrorismo. Come spesso accade, Israele è stato il primo a sperimentare la violenza di un nuovo strumento di assassinio indiscriminato: l’attacco con mezzi stradali. Ebrei e Israele sono sempre stati le cavie. Il mondo ha ignorato o addirittura tollerato. E la maggior parte dei principali mass-media si rifiutava anche solo di definire “terrorismo” quegli attacchi. Al massimo, gli innocenti uccisi e mutilati in quegli attacchi erano “vittime di una spirale di violenza” o “di un incidente stradale poco chiaro”. Anche questa volta, si è dovuti arrivare all’attacco terroristico a Nizza per chiamare le cose con il loro nome.

Riluttanza a citare il nome del responsabile dell’attentato a Nizza. Sebbene il nome del terrorista Mohamed Lahouaiej Bouhlel sia stato diffuso subito dopo l’attentato, molti mass-media hanno evitato a lungo di nominarlo negli articoli e nei notiziari. Perché? Perché il suo nome avrebbe confermato la dolorosa realtà che tanti cercano disperatamente di negare. No, non si trattava di un Solomon o di un Christian, ma tragicamente, ancora una volta, di un Mohamed. Letteralmente. E, cosa più importante, di un ennesimo individuo di fede musulmana che ha commesso una strage sentendosi giustificato dalla sua religione, come tanti altri prima di lui a Boston, a Parigi, a Dacca, a Gerusalemme, a Tel Aviv, a Bruxelles.

Fatima Charrihi (a sinistra), descritta come la prima persona investita nell’attentato a Nizza

Fatima Charrihi (a sinistra), descritta come la prima persona investita nell’attentato a Nizza

La prima vittima dell’attentato è stata una musulmana. Gli stessi mass-media non hanno avuto problemi, anzi hanno enfatizzato il più possibile il fatto che fosse una “musulmana” quella che sembra sia stata la prima persona investita e uccisa a Nizza. Perché? Per riproporre immediatamente la narrazione a loro cara secondo cui anche i musulmani sono vittime del terrorismo. E naturalmente è vero che lo sono. Dai jihadisti islamici dono stati uccisi più musulmani che membri di qualunque altro gruppo. Il punto è che questo non si traduce in una costante denuncia e in un coerente intervento, in tutto il mondo a maggioranza islamica, contro quella minoranza di correligionari – tutt’altro che marginale – che uccide la propria gente. Per dirla fuori dai denti, un conto è quando i musulmani ignorano o giustificano stragi e devastazioni in mezzo a loro; tutt’altro quando esportano stragi e devastazioni nei caffè e per le strade di Gerusalemme e Parigi. Il fatto che i musulmani subiscono stragi e devastazioni non attenua la responsabilità di quella “stragrande maggioranza di musulmani pacifici”, e soprattutto dei leader e dei chierici musulmani, di denunciare pubblicamente, protestare ed esigere la fine di questo cancro della loro fede. Su una popolazione di 1,2 miliardi di musulmani, dove sono le manifestazioni di almeno un milione di persone in marcia verso la Mecca per chiedere che i jihadisti vengano scomunicati dalla fede musulmana?

Il disperato desiderio di razionalizzare le stragi. Se solo… I principali mass-media cercano disperatamente di spiegare le azioni omicide come qualcosa che (almeno in parte) non ha nulla a che fare con la concezione che taluni hanno della propria fede, quanto piuttosto come il frutto di una giovinezza travagliata, di commistioni con la criminalità, di una vita ai margini della società. E se ciò non basta, spesso si seminano spunti di introspezione della serie: forse siamo noi in qualche modo colpevoli per le azioni di quell’individuo, se solo fossimo stati più sensibili alle sue esigenze, se solo fossimo stati più attenti a non stigmatizzare gli immigrati, tutta questa tragedia poteva essere evitata. Ancora peggio la mania, se tutto questo non basta, di cercare di razionalizzare quelle azioni semplicemente come quelle di un individuo squilibrato affetto da qualche turba mentale. Ancora una volta, come se i problemi nell’islam non avessero nulla a che fare con tutto questo. Al limite, l’appartenenza all’islam viene vista addirittura come una semplice coincidenza. Per gli individui che soffrono davvero di malattia mentale, e soprattutto quelli che riescono coraggiosamente a controllare la loro malattia, questi giudizi ridicoli sono una vera offesa, e dovrebbe esserlo per tutti noi. Un individuo con malattia mentale non è di default un jihadista patentato, uno che aspetta solo di farsi saltare in aria. Violenza e malattia mentale non sono la stessa cosa. Al contrario, la realtà è che per la maggior parte le persone con malattie mentali sono intrinsecamente non violente. Non hanno l’ossessione di far del male agli altri. Il più delle volte sono su un percorso lungo e solitario per aiutare se stesse. E quand’anche un terrorista fosse effettivamente affetto anche da qualche disturbo mentale, la sua mentalità folle e contorta che non solo approva ma addirittura incoraggia a uccidere, non nasce dal nulla ma da letture, insegnamenti, idealità avvalorate da altri, e inculcate nelle sue azioni.

I colori della Francia sul Municpio di tel Aviv in sgno di solidarietà per le vittime dell'attentato a Nizza

I colori della Francia sul Municpio di Tel Aviv in segno di solidarietà per le vittime dell’attentato a Nizza

Non una perversione dell’islam, ma una versione dell’islam. Subito dopo ogni attentato terroristico, sentiamo immancabilmente i governi occidentali dichiarare che questa azione terroristica “non ha nulla a che fare con l’islam”. Quando la cosa evidente agli occhi di qualunque persona razionale è che essa è motivata dall’islam. La realtà è che non si tratta tanto di una perversione dell’islam, si tratta piuttosto di una versione dell’islam. Una versione della fede all’interno di una religione, l’islam, che da decenni si batte per trovare il proprio posto nella modernità. E fallisce. Fallisce a livello individuale e fallisce a livello nazionale, un paese musulmano dopo l’altro. Un popolo e interi paesi bloccati nei tempi dell’oscurantismo. Non si tratta di “lupi solitari”, ma dei seguaci di un movimento teologico universale all’interno dell’islam che crede nel terrore come strumento perfettamente legittimo per perseguire il Califfato islamico mondiale.

Le minoranze che dettano la storia. Cerchiamo di essere chiari, a beneficio di coloro che si precipitano ad accusare di xenofobia e islamofobia. Nessuna persona razionale pensa che gran parte della popolazione islamica mondiale – 1,2 miliardi di individui – sia fatta di terroristi. Ovviamente. Eppure, dopo ogni attentato, sentiamo la lezione sulla “stragrande maggioranza dei musulmani…” eccetera. Tuttavia, la stima generalmente accettata è che gli islamisti (coloro che vogliono imporre la legge islamica a tutta la società) rappresentano il 15-20% del totale, il che significa circa 300 milioni di persone. Diciamo pure che la stima è molto esagerata e che solo l’1% degli islamici è definibile islamista. Si tratta pur sempre di un milione di persone. Per la devastazione dell’11 settembre sono bastate 19 persone; per l’attentato a Nizza una sola persona. La storia della civiltà è piena di casi in cui minoranze estremiste – individui o segmenti o gruppi di una popolazione – hanno dettato l’agenda di intere nazioni. Se non reagisce, la famosa “stragrande maggioranza” diventa del tutto irrilevante.

Chiamare le cose con il loro nome. Rispondendo alle critiche di chi lo accusava di non aver chiamato ” jihadismo islamico” il terrorismo, il presidente Barack Obama ha detto che “chiamare una minaccia con un nome diverso non la fa scomparire”. Al presidente sfugge, però, un punto molto importante. Nessuno sano di mente crede che chiamare il terrorismo per quello che è – jihadismo islamico – serva come una bacchetta magica a porre fine a questa piaga della nostra generazione. Ma quello che può fare – se lo si ripete più e più volte, con costanza e determinazione – è tenere accesi i riflettori sui leader religiosi e politici musulmani, e contribuire a garantire che non si perda per strada l’assillo di fare i conti con questo male all’interno della loro fede. Certo, questo può mettere a disagio “la maggioranza di musulmani pacifici”, ma forse è bene che si sentano a disagio. Dovrebbero sentirsi ben più che a disagio rispetto ai loro correligionari che uccidono in loro nome.

Una manifestazione di massa musulmana a Kuala Lumpur… contro Israele

La religione che hanno tanto a cuore. Devono svegliarsi, prendere posizione, far sentire la loro voce e battersi nella guerra civile che lacera la loro fede; forzare sempre più il dibattito già tardivo ma indispensabile, l’esame di coscienza, le rigorose argomentazioni intellettuali che i musulmani stessi in tutto il mondo devono abbracciare in modo molto più combattivo; soprattutto attuare programmi, politiche e azioni concrete e coraggiose per contrastare con vigore la versione islamista dell’islam adottata da una consistente minoranza. Mentre loro si battono per cercare di allontanare il loro “islam che ama la pace” dagli islamisti assassini, noi dobbiamo costantemente spingere e spronare il mondo islamico ad un’azione di trasformazione. C’è da vincere una guerra civile necessaria, già iniziata da tempo. E si può fare solo chiamando le cose con il loro nome, e garantendo tutto il sostegno di cui siamo capaci, giacché alla fine il successo potrà venire solo dal loro interno.

Un mondo un po’ troppo relativo. Due individui ebrei, in Israele, uccidono un innocente ragazzo palestinese. Vi è totale e unanime condanna su tutto lo spettro politico e religioso ebraico, che immediatamente denuncia il delitto. Una nazione intera è in lutto, l’intero popolo ebraico – dentro e fuori Israele – prova un enorme senso di vergogna. Dai giornali israeliani al New York Times, scorrono pagine e pagine di editoriali e analisi che passano ai raggi X la società israeliana, che sviscerano ogni possibile ombra della mentalità del paese. Con toni fortemente critici e autocritici. Non si fa nessuno sconto. Un solo omicidio è già un omicidio di troppo. Poi c’è il mondo musulmano. Con decine di migliaia di morti trucidati in nome della fede. Esplosioni, decapitazioni e anche peggio. Quotidianamente. Dov’è lo scandalo? Dov’è la quotidiana indignazione? Dove sono gli editoriali critici, le analisi impietose, non sul New York Times ma sulla stampa musulmana? Dove sono le manifestazioni di milioni di persone sconvolte e indignate per l’abuso della religione perpetrato dai loro correligionari?

(Da: Times of Israel, 18.7.16)