I tre no di Abu Mazen

Il presidente dell'Autorità Palestinese rivendica il diritto di invasione demografica di Israele

Il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) durante il suo discorso di sabato 11 gennaio 2014 nella sede governativa della Muqata, a Ramallah

Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) durante il suo discorso di sabato 11 gennaio nella sede governativa della Muqata, a Ramallah

Con un discorso che ricorda l’infausta risoluzione dei “tre no di Khartoum” approvata dalla Lega Araba nel 1967, in un intervento sabato nella sede governativa della Muqata, a Ramallah, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha dichiarato che i palestinesi non riconosceranno Israele come stato nazionale del popolo ebraico, non accetteranno nessun accordo che non preveda la spaccatura di Gerusalemme proclamandone la parte est capitale del futuro stato palestinese, e non cederanno mai sul cosiddetto “diritto al ritorno” di ogni singolo “profugo”.

Abu Mazen ha anche ribadito che la Valle del Giordano dovrà far parte integrante dello stato palestinese senza nessun tipo di presenza israeliana.

Il discorso, in gran parte trascurato dai mass-media perché tenuto nel giorno in cui veniva a mancare l’ex primo ministro israeliano Ariel Sharon, marca un significativo indurimento della posizione del leader palestinese, in particolare sulla questione del “ritorno” dei profughi palestinesi, e loro discendenti, all’interno di Israele anche dopo la nascita di uno stato palestinese.

La tradizionale posizione palestinese sul “diritto al ritorno” riprende le parole del piano della Lega Araba del 2002 (noto come piano saudita) che prevede “una soluzione giusta e concordata basata sulla risoluzione 194 delle Nazioni Unite”. Questa è la formula che Abu Mazen ha usato nel discorso alle Nazioni Unite lo scorso settembre, così come nel suo intervento al Forum Economico Mondiale in Giordania lo scorso giugno. Ma nel discorso di sabato il presidente dell’Autorità Palestinese non ha fatto alcun riferimento a decisioni internazionali.

Tutta la pubblicistica palestinese, come negli esempi in questa pagina, rappresenta il “diritto al ritorno” come la “riconquista demografica” di Israele e la sua scomparsa dalla carta geografica

“Lo dirò in parole semplici – ha dichiarato – Il diritto al ritorno è una decisione personale. Cosa significa? Significa che né l’Autorità Palestinese, né lo Stato, né l’Olp, né Abu Mazen, né alcun altro leader arabo o palestinese hanno il diritto di privare qualcuno del suo diritto al ritorno”. (Un “diritto” – è appena il caso di ricordare – non riconosciuto come tale a nessuna comunità di profughi al mondo, men che meno ai loro figli e nipoti, e certamente mai riconosciuto agli ebrei cacciati dai paesi arabi e musulmani.) Si potrà istituire un meccanismo per indennizzare i profughi che optano di restare nei paesi dove si trovano, ha poi aggiunto Abu Mazen, ma l’ultima parola resta quella di ogni singolo profugo palestinese. “La scelta spetta a ciascuno di voi – ha ulteriormente chiarito – Vuoi tornare? Tornerai. Non vuoi? Sei libero di restare e c’è l’indennizzo e altre misure. Volevo solo rimarcare questo punto: che il diritto al ritorno è un diritto personale. Persino un padre non può rinunciare a tale diritto per conto dei suoi figli”.

La rivendicazione di un “diritto” legale a invadere Israele non è una novità. Quale sia, infatti, per i palestinesi il significato della risoluzione Onu 194 venne chiarito già il primo gennaio 2001 in un memorandum della squadra negoziale palestinese guidata da Yasser Abed Rabbo presentato in risposta ai parametri del presidente Bill Clinton per un accordo israelo-palestinese. Vi si legge: «È importante ricordare che la risoluzione 194 prevede il ritorno dei profughi palestinesi alle loro case, ovunque situate. L’essenza del diritto al ritorno sta nella scelta: ai palestinesi deve essere data la possibilità di scegliere dove vogliono insediarsi, compreso il ritorno alle case da cui furono allontanati».

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Secondo il politologo palestinese Bassem Ezbidi, dell’Università Bir Zeit (presso Ramallah), c’era da aspettarsi un inasprimento delle posizioni da parte di un leader che viene ampiamente considerato dalla piazza palestinese come troppo accomodante sulla questione dei profughi. Egli stesso originario della città di Safed (in Galilea), Abu Mazen venne duramente attaccato dai palestinesi quando, il 2 novembre 2012, in un colloquio con il Canale 2 della tv israeliana disse di non avere personalmente il “diritto” di tornare nella città natale, e che non avrebbe avanzato rivendicazioni territoriali al di là delle linee del ‘67.

Durante il suo infervorato intervento di sabato scorso, Abu Mazen è stato interrotto più volte dalla folla entusiasta che ha ripetutamente scandito slogan palestinesi dei tempi di Yasser Arafat, tra cui il classico “milioni di martiri stanno marciando su Gerusalemme”. È a questo punto che Abu Mazen ha chiosato: “Milioni di eroi, milioni di uomini liberi stanno marciando a Gerusalemme. Noi non cerchiamo la morte, ma accogliamo con favore il martirio, quando succede”.

(Da: Israel HaYom, Times of Israel, 14.1.14)

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Il ’48 secondo Abu Mazen: all’Onu dice una cosa, alla tv palestinese un’altra. Alle Nazioni Unite si presenta come un profugo “sradicato e gettato in esilio”, ma lui stesso ha raccontato che non furono gli israeliani a cacciare gli arabi da Safed

Quando anche ad Abu Mazen scappa detta la verità storica. Nessuna cacciata ad opera degli ebrei, nelle memorie del presidente palestinese