I veri problemi della Lega Araba

Concentrandosi su Israele la Lega Araba ha spostato ancora una volta lattenzione dai suoi cronici disastri

Da un articolo di Amotz Asa-El

image_1647Guardando i leader della Lega Araba riuniti l’altra settimana a Riyad si era portati a considerare la differenza fra loro e i loro colleghi dell’Unione Europea. L’Unione Europea, i cui 27 paesi parlano almeno 24 lingue diverse e i cui leader rappresentano normalmente un arco di posizioni che va dai conservatori agli ultra-liberali, è stata tradizionalmente consapevole dei propri limiti politici, concentrandosi di conseguenza sulla ricerca di accordi economici. Il risultato, un’era di notevolissima prosperità e di impegni sovranazionali coronata dal lancio della moneta unica fino a poco tempo fa persino inimmaginabile, costituisce probabilmente il più riuscito esercizio di ingegneria politica che la storia ricordi.
La Lega Araba, i cui membri parlano la stessa lingua, non è nemmeno lontanamente prossima all’unificazione della moneta o all’abolizione delle frontiere, e resta di fatto dedita ai conflitti, alla diffidenza, all’ostilità reciproca. La riunione a Riyad – sia detto con il dovuto rispetto per la riproposta della formula saudita per la pace in Medio Oriente – non ha fatto eccezione. Con il Libano rappresentato da due delegazioni rivali, con l’assenza del leader libico Muammar Gheddafi, e con il presidente del Sudan – proprio lui – che dichiara che il principale problema della regione è il conflitto arabo-israeliano, il summit di Riyad è apparso incapace di affrontare, per non dire di influenzare, la realtà delle cose.
La realtà delle cose è che la faida arabo-israeliana non è che uno dei conflitti che attraversano il Medio Oriente, una regione che è con tutta evidenza un malato in stadio terminale, un malato i cui disturbi non sono radicati in questo o quel conflitto ma nella generale decadenza economica, nella stagnazione sociale, nel fanatismo religioso.
Al summit di Riyad, il re saudita Abdullah è stato più coi piedi per terra del presidente sudanese Omar al-Bashir, la cui premurosa dichiarazione su Israele ha convenientemente ignorato il ruolo del suo stesso governo nei massacri di neri africani nel Darfur. “La realtà araba non è mai stata così lontana dall’unità”, ha detto con franchezza re Abdullah ai convenuti. Ed elencando le crisi in Sudan, in Libano, in Somalia, in Iraq, ne ha attribuito la responsabilità ai presenti dicendo: “Siamo noi, i leader del mondo arabo, che non abbiamo saputo governare questi problemi”.
Purtroppo c’è dell’altro che i leader arabi hanno mal governato, che è in effetti il contesto in cui sono venuti fuori con il loro “piano di pace”: un piano fallimentare che, come tutte le “azioni” della Lega Araba, è pensato per non costare nulla e non condurre da nessuna parte.
Quello saudita è un piano fallimentare per almeno due ragioni. Nella sostanza, perché va a graffiare il nervo più sensibile d’Israele, quei profughi della guerra del 1948 che venne scatenata contro lo stato ebraico appena sorto dopo la Shoà, con il dichiarato intento di troncarlo sul nascere. La pretesa implicita che quei profughi vengano reinsediati all’interno dei confini pre-’67 di Israele è considerata da quasi da tutti gli israeliani, compresi vecchi campioni della formula “terra in cambio di pace” come Amos Oz e A.B. Yehoshua, uno stratagemma per distruggerli. Non sarà mai accettata da nessun leader israeliano, come nessun governo russo, ceco o polacco reinsedierà mai i dodici milioni di tedeschi cacciati da quei paesi dopo che quei paesi erano stati aggrediti dalla Germania nella seconda guerra mondiale.
Sul piano della tempistica, la dichiarazione di Riyad è stata fatta mentre i suoi estensori sapevano bene che il primo ministro israeliano Ehud Olmert – afflitto da scandali politici e legali – non è nella posizione di condurre una coraggiosa iniziativa diplomatica. Con un bassissimo indice di popolarità, l’ultima cosa che Olmert può fare oggi è lanciare un piano che il suo rivale Binyamin Netanyahu potrebbe facilmente denunciare come chiaramente volto a rimpicciolire Israele fisicamente e sommergerlo demograficamente.
Ad ogni modo, concentrandosi su Israele la Lega Araba è riuscita furbescamente a spostare l’attenzione dai suoi cronici disastri, non trattando i problemi economici, diplomatici, religiosi, sociali e politici che sarebbero il suo pane quotidiano se fosse guidata da gente meno cinica.
Il vero problema della Lega Araba dovrebbe essere che la somma del PIL di 250 milioni di arabi è inferiore al PIL della Corea del Sud, mentre il loro tasso di analfabetismo è tra i più alti del mondo e le loro donne sono tra le meno impiegate nel mondo del lavoro. Sul piano diplomatico, il vero problema è che la Lega Araba è stata nel migliore dei casi passiva, nel peggiore ostruzionista di fronte alla universale richiesta di giustizia per il Darfur. Sul piano religioso, il vero problema è che la Lega Araba, a predominanza sunnita, ha elogiato in modo imbarazzante le lotte degli sciiti Hezbollah, ignorando la denuncia del primo ministro libanese Fuad Saniora secondo cui il capo Hezbollah Hassan Nasrallah sta portando il paese alla rovina. Sul piano sociale, il vero problema è che la Lega Araba non sembra affatto disturbata dalla costante esportazione di emigranti verso un’Europa sempre più affollata, ostile ed esplosiva. E sul piano politico, il problema è che alla Lega Araba sembra che stia bene la recente messa al bando dei partiti religiosi con una modifica costituzionale in Egitto.
Se avesse voluto fare sul serio, il vertice di Riyad avrebbe affrontato questi temi e avrebbe affrontato l’interrogativo che sempre più spesso i giovani arabi si pongono: perché siamo così arretrati? Una generazione fa, le economie arabe non erano le sole che mescolavano povertà e autoritarismo. Oggi, con la Cina, l’India e la Russia che emergono come superpotenze economiche, gli arabi hanno diritto di sapere perché i loro leader insistono a propinare loro la solita minestra piena di slogan e priva di reali opportunità.
La risposta è semplice: il progresso minaccia le elite. Questo è il motivo per cui linee produttive tipo Nike e Benetton, che sono diventate onnipresenti dal Vietnam al Messico, per non dire di quelle tipo Fiat e Volkswagen che sono ormai normali dal Brasile alla Polonia, restano un’assoluta rarità in Siria, Egitto e Yemen. Questo è il motivo per cui l’Arabia Saudita preferisce importare regolarmente milioni di lavoratori non arabi mentre sbarra la strada alle masse di disoccupati del vicino Egitto. È il motivo per cui il mondo arabo non ha ancora visto nascere la sua prima università indipendente, il suo primo quotidiano indipendente, il suo primo sindacato, tribunale, parlamento o consiglio comunale indipendente. Questo è anche il motivo per cui milioni di arabi restano indigenti e facile preda dell’ultimo predicatore fondamentalista. E questo è anche il motivo per cui la dichiarazione di Riyad non è che una messinscena, un monumento alla caparbia convinzione della Lega Araba che litigare con Israele sia sempre e comunque più urgente che industrializzare il mondo arabo, incoraggiare al suo interno la mobilità sociale, modernizzare le sue infrastrutture, promuovere lo sviluppo e il progresso delle sue popolazioni.

(Da: Jerusalem Post, 8.04.07)