Il 1967 di Barack Obama

Non si persegue la pace invertendo i rapporti di causa/effetto

di Zalman Shoval

image_2802L’ispirato discorso che il presidente americano Barack Obama ha tenuto all’Onu lo scorso settembre comprendeva parecchi passaggi sul conflitto mediorientale. Obama vi esprimeva la speranza in “una giusta e duratura pace tra Israele, Palestina e il mondo arabo”, un desiderio condiviso da tutti gli israeliani. Ma dando un’occhiata più da vicino ad alcune affermazioni del presidente, possono sorgere parecchi interrogativi.
Il discorso di Obama, ad esempio, non menzionava il fondamentalismo islamico o il jihadismo, che sono fra le principali cause dell’instabilità in Medio Oriente e altrove. Né condannava il rifiuto del mondo arabo di riconoscere il diritto del popolo ebraico ad un proprio stato.
Non meno problematico il suo riferimento alla necessità di porre fine all’“occupazione iniziata nel 1967”: un’affermazione che rovescia la storia in quanto implica, forse non intenzionalmente, che l’occupazione di Israele della Cisgiordania sia all’origine del conflitto arabo-israeliano. Il che configura chiaramente un’inversione dei rapporti di causa ed effetto.
Come ha scritto lo scrittore e storico Simon Schama, la storia dovrebbe impegnarsi a sbrogliare i fatti dalle favole “senza dimenticare, come disse John Adams, uno dei padri fondatori dell’America, che i fatti hanno la testa dura”. Ebbene, i fatti che riguardano il conflitto in Terra Santa, anche se spesso vengono deliberatamente o inavvertitamente distorti o ignorati, hanno davvero “la testa dura”. Le attività terroristiche contro Israele sono iniziate molti anni prima che iniziasse l’“occupazione”, e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), votata alla distruzione dello stato d’Israele, venne fondata nel 1964.
Non meno importanti, sul piano storico e fattuale, sono i reali antefatti della Guerra dei Sei Giorni del 1967, quella che diede origine all’“occupazione” cui faceva riferimento il presidente Obama nel suo discorso.
Il 13 maggio 1967, il dittatore egiziano Gamel Abdel Nasser annunciava che due divisioni egiziane sarebbero entrate nella penisola del Sinai al confine con Israele meridionale: in violazione degli accordi internazionali, degli impegni americani e delle garanzie dell’Onu. Cedendo alle escandescenze di Nasser, l’allora segretario generale delle Nazioni Unite, U Thant, acconsentì a rimuovere immediatamente dalla zona le truppe di emergenza dell’Onu.
Il giorno seguente, colonne corazzate e di fanteria egiziane attraversavano il canale di Suez e muovano verso la frontiera israeliana. Poco dopo, il Cairo annunciava che avrebbe bloccato tutto il traffico del porto di Eilat, l’unico sbocco marittimo di Israele verso sud, mentre i Mig-21 egiziani cominciavano a volare sul territorio israeliano, compresa la zona di Dimona. Nello stesso tempo, le forze siriane e irachene ricevevano l’ordine di prepararsi per un attacco contro Israele sul fronte settentrionale.
Il minimo obiettivo strategico degli egiziani, come fu rivelato in seguito, era quello di tagliar fuori il Negev israeliano dal resto del Paese; ma lo stesso Nasser, nelle sue dichiarazioni sia pubbliche che segrete, non lasciava dubbi sul fatto che il suo scopo ultimo fosse il completo annichilimento dello Stato di Israele.
Una svolta decisiva che portò alla Guerra dei Sei Giorni, e che ebbe ripercussioni sulla storia di tutto il Medio Oriente fino ad oggi, avvenne il 30 maggio 1967. In quella data, re Hussein di Giordania, che veniva considerato sia da Israele che dagli Usa come un modello di pace e moderazione, ignobilmente e senza preavviso firmò accordo militare con l’egiziano Nasser, già suo acerrimo nemico, che includeva l’impegno giordano ad affiancare l’Egitto in qualunque guerra contro Israele, schierando forze irachene ed egiziane sul suolo giordano. La Legione Araba giordana, considerata da molti come la miglior macchina da guerra del mondo arabo, fu posta sotto il commando egiziano. La radio egiziana sbandierava che ormai l’unica via di fuga per gli israeliani era il mare. Nel 1948 la Giordania (già Transgiordania) aveva occupato e poi annesso la parte occidentale della Palestina – da allora chiamata Cisgiordania – facendo il questo del regno hascemita il vicino di casa a ridosso di Israele, adiacente alla maggior parte dei centri più popolati israeliani, compresa Gerusalemme ovest e l’unico aeroporto internazionale del Paese. I motivi precisi della scelta di re Hussein non sono chiarissimi: alcuni credono che volesse tener buona la maggioranza palestinese nel suo paese, altri ritengono si trattasse del desiderio del re di impadronirsi di parte del bottino nel caso gli arabi fossero usciti vittoriosi contro Israele.
Il resto, come si suol dire, è storia. La guerra scoppiò il 5 giugno; le forze aeree egiziane furono totalmente distrutte il primo giorno di guerra e le Forze di Difesa israeliane, avanzando verso il canale di Suez, spazzarono via quelle egiziane. Il blocco su Eilat fu rimosso. Nel nord, le alture del Golan da cui l’esercito siriano aveva cominciato il suo attacco contro Israele, vennero prese; e le truppe giordane, dopo un fallito tentativo di sfondare sul fronte di Gerusalemme ovest, con diversi giorni di duri combattimenti, furono espulse da tutto il territorio ad ovest del fiume Giordano.
Israele aveva conseguito una completa vittoria in una guerra di legittima difesa contro un’evidente aggressione il cui scopo dichiarato era la sua distruzione.
Tutto questo venne pienamente riconosciuto dalla maggior parte delle nazioni del mondo. Non, naturalmente, dai paesi arabi e dai loro alleati, né dall’Unione Sovietica che, secondo alcune analisi, è quella che aveva istigato i governi arabi nei loro piani aggressivi.
In seguito, successivi leader americani ebbero a dichiarare che non si sarebbe mai dovuto chiedere a Israele di tornare ai vulnerabili confini di prima del ‘67, mentre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu adottava la risoluzione 242 che specificamente legava qualunque ritiro israeliano da “territori conquistati” all’ottenimento di confini “sicuri e riconosciuti”.
Ecco cosa insegna il 1967: non di “metter fine all’occupazione”, ma di garantire che Israele non sia messo mai più in una situazione come quella che dovette affrontare in quell’anno fatale.

(Da: Jerusalem Post, 04.10.09)

Nell’immagine in alto: Una vignetta della propaganda araba alla vigilia della guerra dei sei giorni (al-Farida, Libano): Nasser butta gli ebrei in mare a pedate