Il completo fallimento di Abu Mazen

E’ vero, ha cercato di porre fine al caos violento lasciato da Arafat tredici anni fa. Poi, però, non ha più concluso niente di buono

Editoriale del Jerusalem Post

Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) parla al Comitato Centrale dell’Olp a Ramallah il 14 gennaio 2018

La tirata di più di due ore del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), domenica scorsa davanti a una assemblea di vecchi dirigenti dell’Olp a Ramallah, costituisce un’ulteriore sconfortante conferma che il capo dei palestinesi si trova più a suo agio nei panni del paranoico intransigente che in quelli di un leader con una visione per il futuro. Il discorso, che potrebbe essere uno degli ultimi dell’ottuagenario presidente, non è che un malinconico attestato di oltre un decennio di leadership fallimentare che non ha portato i palestinesi da nessuna parte.

Sebbene sia riuscito a porre un freno al caos e alla violenza che avevano quasi portato all’implosione della società palestinese dopo che ne aveva ereditato la leadership da Yasser Arafat nel 2004, da allora Abu Mazen ha concluso ben poco.

L’Autorità Palestinese rimane un entità corrotta in cui imperversano clientelismo e intolleranza alle critiche. Abu Mazen è un leader impopolare, privo di un mandato democratico sin dal gennaio 2009, anno in cui è teoricamente scaduto il suo mandato quadriennale. In Cisgiordania e Gaza non ci sono più state elezioni dal 2006, quando Hamas conquistò la maggioranza dei voti.

Abu Mazen ha fallito praticamente ogni sfida. Non ha unificato il popolo palestinese, che rimane spaccato tra la striscia di Gaza controllata da Hamas e la Cisgiordania controllata da Fatah. Si è sottratto alla sua responsabilità di leader lasciando cadere nel 2008 l’irripetibile offerta di pace dell’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert. Non ha approfittato del suo prolungato incarico da presidente per presentare al suo popolo una visione per il futuro che contemplasse un approccio alla pace più pragmatico e moderato mettendo l’accento su qualità della vita e stabilità economica anziché su rivendicazioni estremiste e illusorie. E ha lasciato che continuasse ad avere libero corso la più controproducente propaganda revanscista nelle scuole, nei mass-media, nelle moschee. Non ha nemmeno messo a punto uno straccio di piano per il giorno della sua uscita dalla scena politica, sebbene sia tanto anziano e in cattive condizioni di salute.

La riunione del Comitato Centrale dell’Olp a Ramallah. Alle spalle della presidenza sono ben visibili il simbolo dell’Olp (con la mappa della Palestina che cancella Israele dalla carta geografica) e la falsa storia per mappe del conflitto israelo-palestinese: (clicca sulla foto per l’articolo “Le false mappe della propaganda anti-israeliana”)

Abu Mazen continua a fare ciò che gli riesce meglio: incolpare il mondo intero – tranne se stesso – per la condizione dei palestinesi: gli Stati Uniti, Israele, Hamas, persino gli europei colonialisti, incluso il leader inglese del XVII secolo Oliver Cromwell, tutti colpevoli d’aver rovinato la società palestinese spedendo ebrei in Palestina. E la creazione dello stato di Israele, nel vaniloquio di Abu MAzen, diventa un complotto istigato dagli europei per scaricare sui palestinesi il prezzo di una Shoà a cui gli stessi ebrei non si sarebbero voluti sottrarre.

Dal canto loro i palestinesi, secondo Abu Mazen, sono sempre e solo vittime passive: totalmente scomparsa la popolazione intransigente e violenta che respinse la spartizione, che fece ricorso al terrorismo molto prima del 1967, che ha votato in maggioranza Hamas: un’organizzazione terroristica che persegue la distruzione di Israele per sostituirlo con un califfato islamico che punisce l’apostasia con la morte, relega i non musulmani e le donne nello status di sottomessi e giustifica gli attentati suicidi come legittima reazione all’autodeterminazione del popolo ebraico nella sua patria storica.

Abu Mazen ha chiarito molto bene che cosa rifiuta: il riconoscimento delle rivendicazioni storiche, culturali e religiose del popolo ebraico in Terra di Israele; l’accettazione degli Stati Uniti come principale mediatore nei negoziati di pace con Israele; le difficili ma necessarie concessioni in nome della pace; la normalizzazione dei rapporti con Israele come viatico verso la pace; la cessazione del trasferimento degli aiuti esteri nelle tasche dei terroristi e delle loro famiglie.

Abu Mazen non dà nessun motivo i speranza, nessuna sensazione che stia guidando il suo popolo verso un obiettivo credibile. Forse è convinto di ristabilire l’onore dei palestinesi attaccando il presidente degli Stati Uniti con epiteti come “Che Iddio distrugga la tua casa” e “Al diavolo i tuoi soldi”, e giurando di non voler più cooperare con l’iniziativa di pace di Washington. In realtà fa il contrario. La sua penosa performance non è che l’ennesima occasione mancata di condurre la sua gente verso un’era migliore e più promettente. Paesi arabi come l’Arabia Saudita e l’Egitto hanno cercato invano di spingerlo ad adottare una posizione più pragmatica nei confronti dei negoziati di pace. Avrebbe potuto usare la dichiarazione di Trump su Gerusalemme come un’opportunità per ottenere maggiori concessioni nelle trattative con Israele, e invece l’ha sfruttata come un’ennesima scusa per rilanciare l’intransigenza e sottrarsi al negoziato. Invece di auto-commiserarsi e recitare l’eterna parte della vittima, avrebbe potuto trarre vantaggio dai cambianti in corso nell’atteggiamento di molti paesi arabi verso Israele per guadagnare il loro appoggio a un accordo di pace globale che migliorasse veramente la vita dei palestinesi. Ammesso che gli interessi davvero.

Sfortunatamente Abu Mazen sembra del tutto incapace di cambiare rotta. Ha tanto prosperato nello stallo di un conflitto prolungato all’infinito che non riesce, o non vuole, immaginare una realtà diversa. Farlo equivarrebbe ad ammettere il suo completo fallimento.

(Da: Jerusalem Post, 17.1.18)