Il culto palestinista

La tragedia è che i palestinesi non controllano il culto che hanno generato, ma sono da esso controllati.

Da un articolo di Guy Bechor

image_947Cosa è accaduto ai palestinesi da quanto, quasi un anno fa, è morto Yasser Arafat? Quello appena trascorso è stato un anno in cui, nelle coscienze del mondo, il sole è tramontato sul “culto del palestinismo” in seguito alla morte del suo sommo sacerdote.
La questione palestinese, infatti, non è solo una questione storica o politica. Per quanto possa sembrare strano, per molti in tutto il mondo (comprese alcune anime pie in Israele) la questione palestinese era diventata una specie di culto. Un culto nel senso che uno deve accettarlo totalmente, senza riserve. Un culto che aveva il suo calendario di rituali violenti, i suoi sacrifici, le sue orazioni (“diritto al ritorno”, “uno stato palestinese con Gerusalemme capitale”), le sue cerimonie stagionali alla presenza del suo pontefice. Un culto pieno di paradossi e contrasti. Ad esempio, il mondo arabo ne è ammirato nonostante il fatto che moltissimi arabi disprezzino i palestinesi in quanto tali. Analogamente molti occidentali sono pieni di ammirazione per i palestinesi senza aver mai incontrato un palestinese in carne e ossa.
Il culto palestinista si è guadagnato grande popolarità non per autentico apprezzamento dei palestinesi quanto per autentica avversità verso Israele. L’entusiasmo per Arafat era una foglia di fico spesso assai utile per coprire l’ostilità verso gli ebrei.
Arafat era l’incontrastato papa del culto palestinista e i suoi sostenitori vennero a legioni ad adularlo. Nella sua veste di estrema vittima, agli occhi del mondo Arafat divenne una sorta di divinità che promette libertà, lotta per gli oppressi e per la liberazione, senza che i suoi sostenitori si prendessero mai la briga di controllare i fatti. In sostanza, la personalità di Arafat offrì il più grande contributo al all’interesse nutrito da tutto il mondo per il problema palestinese e alla sua copertura mediatica. La sua immagine era così folcloristica e conosciuta in tutto il mondo da diventare una vera risorsa nazionale per i palestinesi, praticamente la loro unica risorsa nazionale. Ma questa risorsa è scomparsa un anno fa. Il pontefice è morto, e la questione palestinese ha iniziato ad appannarsi. I palestinesi hanno smesso di “fare notizia”.
Arafat era stato sempre molto attento a preservare la sua immagine di vittima. Senza di lui, i palestinesi hanno perso il loro status di vittime eterne, principale fonte di legittimità per il culto palestinista. Sono diventati un insieme fatto di locali signorotti della guerra, bande di assassini, Hamas, Jihad, e Mahmoud Abbas (Abu Mazen): che è l’esatto contrario di Arafat:: niente linguaggio del corpo, niente teatro, e dunque niente appeal per i media. Arafat era un sacerdote. Abu Mazen è un adepto. Arafat era una figura mitica. Abu Mazen semplicemente non lo è.
Come ogni religione, il culto palestinista è totale e senza compromessi. Parla di “giustizia” e di “diritti”, non di compromessi e di accettazione dell’altro. Ecco perché, finché i palestinesi parlando di “giustizia”, ciò significa che continuano a rifiutarsi di analizzare con senso critico il loro culto, anche dopo la morte del pontefice. E continua a non esserci posto per Israele e i suoi attuali abitanti.
Tutto ciò che rimane a Israele, di fronte dei palestinesi, sono le misure unilaterali, per distanziarsi e per proteggersi da loro e dal culto della rivolta che essi hanno creato.
La loro, e la nostra, tragedia è che i palestinesi non hanno alcun controllo sul culto che hanno generato, ma anzi sono da esso controllati.

(Da: YnetNews, 26.10.05)

Nella foto in alto: Guy Bechor, autore di questo articolo