Il disastroso bilancio della guerra palestinese contro Israele

La più grande sconfitta dei palestinesi è stata quella di alienarsi il centro dello spettro politico israeliano e gran parte della sinistra.

di Efraim Inbar, università Bar-Ilan, Begin-Sadat Center for Strategic Studies

image_367Quattro anni fa i palestinesi lanciarono una guerra contro Israele. Il primo obiettivo era quello di strappare ulteriori concessioni al governo [laburista] di Ehud Barak, che aveva appena offerto invano uno stato palestinese su tutta la striscia di Gaza, più del 90% della Cisgiordania e parti di Gerusalemme.
In secondo luogo, i palestinesi ritenevano che la società israeliana sarebbe andata in pezzi sotto la pressione dell’ondata terroristica e che, alla fine, avrebbe accettato di essere invasa da milioni di profughi palestinesi (e loro discendenti).
Il bilancio di questa guerra mostra chiaramente che la violenza palestinese per molti aspetti si è rivelata del tutto controproducente, e che Israele sta vincendo la sua battaglia.
Yasser Arafat, il simbolo stesso del movimento nazionale palestinese, è stato confinato nel suo quartier generale di Ramallah e gradualmente isolato. La comunità internazionale in gran parte aderisce a questa posizione americana e israeliana, essendosi convinta che Arafat è diventato uno dei principali fattori di estremismo nella società palestinese e un ostacolo alla realizzazione delle aspirazioni del nazionalismo palestinese. La sua leadership autoritaria e corrotta è diventata evidente, mentre la sua totale incapacità come statista ha eroso qualunque finzione di stato di diritto nell’Autorità Palestinese. Arafat e i suoi colleghi della dirigenza del movimento nazionale palestinese hanno fallito il test più importante di un moderna sistema di governo: il monopolio nell’uso della forza.
Il fallimentare destino di Arafat riflette la situazione generale dell’impresa palestinese. Quello che vediamo è una società frammentata, sottoposta all’imperio di teppisti e locali signorotti della guerra, unita solo nel suo radicato odio verso gli ebrei e nella sua inveterata propensione per la violenza.
In effetti il conflitto contro Israele ha procurato solo disastri all’economia palestinese, alle sue infrastrutture e al suo tessuto sociale. Se i servizi sanitari ed educativi palestinesi funzionano ancora a livello minimo, tutti gli altri apparati sociali ed economici funzionano solo a intermittenza, e con crescenti difficoltà. Finora il totale collasso dell’Autorità Palestinese è stato evitato solo dal fiume di miliardi di euro versati nei suoi territori dall’estero. Ma la diffusa corruzione che imperversa nell’Autorità Palestinese mette a dura prova la buona volontà dei paesi donatori, suscitando sempre più pressanti richieste di maggiore trasparenza.
La guerra di Arafat non ha fatto fare ai palestinesi un solo passo avanti verso l‘indipendenza, ed anzi ha seriamente compromesso le prospettive per la soluzione “due stati”.
Un altro intento dei palestinesi era quello di internazionalizzare il conflitto, cercando di suscitare un intervento dall’estero sul modello di quello avvenuto nel Kosovo. Ma anche qui hanno fallito. C’è in giro ben poca voglia di mandare delle forze internazionali a fare da cuscinetto tra israeliani e terroristi palestinesi.
Ma la più grande sconfitta dei palestinesi è stata quella di alienarsi il centro dello spettro politico israeliano e gran parte della sinistra. Le “colombe” israeliane erano riuscite a guadagnare grandi simpatie per i palestinesi, un elemento cruciale per spingere la società israeliana verso maggiori concessioni territoriali. Ma la guerra dei palestinesi ha screditato la linea delle “colombe messianiche” (alla Yossi Beilin), spostando la società israeliana su posizioni più di centro, molto meno in sintonia con le richieste dei palestinesi. La maggioranza degli israeliani si è risvegliata dal sogno del processo di pace molto più restia ad assumersi rischi sul piano della sicurezza in nome di un accordo con interlocutori palestinesi inaffidabili.
Durante la guerra di Arafat, la società israeliana ha dimostrato sorprendenti doti di tenacia e di determinazione nel non cedere di fronte al terrorismo. Israele ha saputo resistere agli obiettivi dei palestinesi ed è riuscito a superare i limiti internazionali imposti alla sua libertà di agire militarmente contro bersagli nei territori sotto Autorità Palestinese, impedendo in questo modo che i terroristi palestinesi potessero disporre di covi inviolabili.
A partire dall’operazione Scudo Difensivo (marzo-aprile 2002) i terroristi sono braccati, più occupati a nascondersi che a colpire, cosa che ha determinato un vistoso calo nel numero di vittime civili israeliane. Da questo punto di vista, il risultato di Israele (90% degli attentati sventati) è straordinario.
Senza dubbio l’11 settembre ha rappresentato un punto di svolta anche nella guerra israelo-palestinese. Quell’evento ha reso gran parte del mondo, e in particolare gli Stati Uniti, più sensibili ai dilemmi di Israele nella sua lotta contro il terrorismo. In generale oggi c’è maggiore comprensione per le contro-misure anti-terrorismo israeliane. Viceversa, la dirigenza palestinese non è stata capace di cambiare strada e di dissociare nettamente la lotta palestinese dal terrorismo internazionale.
La proposta di un disimpegno unilaterale costituisce un successo per i palestinesi dal momento che Israele non ottiene nulla in cambio dello sgombero degli insediamenti e del ritiro delle sue forze dalla striscia di Gaza. Tuttavia, alla luce della tradizionale disponibilità israeliana (che data sin dagli anni trenta e quaranta) ad accettare la spartizione della Terra d’Israele, e alla luce del generale consenso che oggi riscuote in Israele la necessità di uscire da Gaza, il progettato ritiro non è una vittoria palestinese. Se attuato, il ritiro non altererà in modo drastico l’equazione geo-strategica di fondo. Anche un ritiro simile in Cisgiordania non rappresenterebbe una sconfitta per Israele finché Israele riuscirà a preservare libertà di azione anti-terroristi in quei territori.
La guerra di Arafat verosimilmente continuerà ancora per un po’ di tempo, con alti e bassi nel livello di violenza, finché le organizzazioni palestinesi avranno ancora energie sufficienti. Ma l’esperimento palestinese probabilmente è già fallito. I palestinesi, come i somali, hanno dimostrato che la capacità di costituirsi in uno stato funzionante non è una dote universale. Anche se l’autodeterminazione viene considerata per lo più un diritto fondamentale, non è detto che tutti i gruppi etnici abbiamo la capacità politica di esercitarla. In effetti la comunità internazionale considera sempre più i palestinesi come incapaci di governare se stessi con successo. Persino alcuni loro storici sostenitori incominciano a prospettare forme di curatela o gestione internazionale – scenario peraltro assai improbabile – per aiutare i palestinesi nella transizione verso l’indipendenza statale. L’amara verità è che la situazione sembra assai prematura perché la soluzione “due stati” possa stabilizzare le cose all’istante. Forse, dopo quattro anni di guerra, bisognerà pensare a qualcosa di diverso.

(Da: Jerusalem Post, 16.09.04)