Il dopo-ritiro e le eccessive aspettative di pace

Chi decide un ritiro deve essere pronto a reagire, se le cose volgono al peggio.

Di Yehuda Wegman

image_2837Nel 2010 ricorre il quarantesimo anniversario della fine della guerra d’attrito (iniziata nel luglio 1967coi bombardamenti egiziani sul Canale di Suez) e del cessate il fuoco firmato nell’agosto 1970, il decimo anniversario del ritiro unilaterale dal Libano meridionale e dello scoppio (quattro mesi dopo) dell’offensiva terroristica dalla Cisgiordania del 2000, e il quinto anniversario del ritiro unilaterale da Israele dalla striscia di Gaza dell’estate 2005.
Ciò che emerge dall’esperienza complessiva di questi ritiri non è che essi fossero sbagliati in se stessi, quanto piuttosto che lo stato d’animo pubblico e la propaganda pre-elettorale creano nei governi un ostacolo psicologico insormontabile quando poi si tratta di affrontare realtà diverse da quelle che erano state promesse agli elettori e che ci si attendeva di creare con i ritiri stessi.
I nemici di Israele hanno appreso da tempo che, quando i risultati di un prospettato ritiro vengono presentati agli elettori israeliani sotto una luce ottimista, è più facile per loro agire contro quel ritiro senza tema di incontrare le appropriate risposte da parte israeliana.
La lezione per i decisori israeliani non è quella di evitare futuri ritiri, bensì quella di circoscrivere molto le promesse di pace e di sicurezza che si fanno dipendere da un determinato ritiro. Quindi, anche se in Israele la promessa di ritiri è essenziale per ottenere il sostegno di alcuni settori dell’elettorato, le aspettative circa i frutti dei ritiri devono essere grandemente ridimensionate. Il che renderà poi più facile per il governo cambiare la sua prospettiva, se e quando il nemico non si comportasse come era stato promesso agli elettori.
La notte stessa in cui entrò in vigore il cessate il fuoco sul Canale di Suez, nell’agosto 1970, gli egiziani violarono spudoratamente l’accordo appena sottoscritto con Israele spostando le loro batterie anti-aeree a ridosso del Canale. Il governo israeliano sapeva che le sue forze aeree non disponevano di una adeguata risposta ai moderni missili egiziani e che il loro spostamento così vicino al Canale avrebbe impedito alle forze aeree israeliane di appoggiare adeguatamente le forze di terra nel caso fosse scoppiata di nuovo la guerra. Ma il governo, a sua volta stremato dalla guerra d’attrito, considerava troppo importante l’accordo appena raggiunto per permettere che venisse fatto saltare appena nato. E così fu permesso alle batterie egiziane di restare dove erano, e da dove erano in grado di coprire lo spazio aereo sia sopra che ad est del Canale. Tre anni dopo, nel giorno di Kippur del 1973, gli egiziani attraversarono il Canale grazie all’ombrello protettivo garantito da quelle batterie di missili. Prima che la guerra scoppiasse, erano in programma per quell’ottobre 1973 le elezioni legislative per il rinnovo della Knesset. Una delle principali ragioni che impedì al ministro della difesa di mobilitare i riservisti alla vigilia della guerra furono le dichiarazioni fatte dal suo partito nel corso della campagna elettorale a proposito di confini che “non sono mai stati così tranquilli”.
Nel 2000 il candidato Ehud Barak promise, se eletto, di rimuovere le Forze di Difesa israeliane dalla fascia di sicurezza nel Libano meridionale affinché la presenza israeliana in quel paese non offrisse più la motivazione per le attività anti-israeliane di Hezbollah , facendo così trionfare la pace e su quel confine. Barak aggiungeva che Hezbollah, se avesse deciso di continuare ugualmente ad agire contro Israele, avrebbe dovuto fare i conti con la decisa reazione delle Forze di Difesa israeliane. Nell’ottobre 2000, cinque mesi dopo che le truppe israeliane erano uscite dal Libano, arrivò il primo test: tre soldati del corpo genieri vennero sequestrati nella zona del Monte Dov, al di qua della frontiera. Ma Barak non seppe rompere lo schema delle promesse fatte ai suoi elettori, il che gli impedì di passare al modus operandi belligerante che lui stesso aveva preconizzato. Fu il governo Olmert quello che modificò le regole del gioco sul confine libanese, nel 2006, quando sorprese Hezbollah andando a bombardare le sue basi fin dentro Beirut come reazione ad un altro sequestro (e assassinio) di soldati israeliani.
Nel settembre 2000 scoppiò l’offensiva terroristica di Yasser Arafat nota come “intifada al-Aqsa”. Esattamente come in Libano, anche qui le promesse fatte agli elettori circa la calma che ci si aspettava sulla scorta degli accordi firmati con l’Olp negli anni precedenti impedì al governo Barak di reagire immediatamente contro l’ondata di attentati suicidi rioccupando le aree da dove originavano. Come sullo scenario libanese, anche qui fu poi il governo Sharon quello che impresse un cambiamento di prospettiva con la controffensiva Scudo Difensivo del 2002, che portò alla fine di quell’ondata terroristica grazie a ripetute incursioni delle Forze di Difesa israeliane nei santuari terroristici in Cisgiordania.
Tuttavia, la regola sull’incapacità di un governo di superare le sue stesse asserzioni circa un ritiro da esso avviato funzionò anche col governo Sharon. Esso infatti restò paralizzato di fronte al terrorismo di Hamas dalla striscia di Gaza all’indomani del ritiro israeliano da quel territorio nell’estate 2005. Anche in questo caso, il motivo fu la promessa che, sulla scorta del ritiro, sarebbe prevalsa la tranquillità. Ci vollero più di quattro anni di patimenti prima che un altro governo, che non era ingabbiato nelle sue stesse asserzioni, lanciasse la controffensiva anti-Hamas nel gennaio 2009, generando effettivamente un periodo di maggiore calma.
La cronica incapacità di reagire adeguatamente a rinnovate aggressioni all’indomani dei circoscritti ritiri finora intrapresi deve servire da campanello d’allarme per chiunque intenda avviare un ritiro più ampio da teatri come la Cisgiordania e le alture del Golan. Nulla giustifica la perdurante inerzia mostrata dai governi dopo i ritiri da Gaza e dal Libano, mentre lo stato d’Israele è forte abbastanza per superare tali carenze. La combinazione di uno stato di Israele più piccolo, frutto risultato di un ritiro strategico, unito a inequivocabili segnali d’allarme di un prevista aggressione da parte di un esercito regolare renderà necessaria la capacità di decidere un eventuale attacco preventivo nelle aree da cui Israele si sarà ritirato.
Qualunque governo democratico del mondo incontra grandi difficoltà ad entrare in guerra, e la lezione da trarre dalla condotta sin qui dei governi israeliani è che non accade che tali decisioni cruciali vengano prese dalle stesse persone che erano convinte della bontà intrinseca dei loro ritiri. Mentre appare evidente la minaccia all’esistenza stessa del paese che può emergere da situazioni in cui non venissero prese tempestivamente le giuste decisioni di fronte alle eventuali conseguenze negative di quelle che qui passano sotto il nome di “dolorose concessioni per la pace”.

(Da: YnetNews, 05.24.10)

Nella foto in alto: Yehuda Wegman, autore di questo articolo

DOCUMENTAZIONE
“Nel momento stesso in cui ce ne andremo dal Libano meridionale dovremo cancellare la parola Hezbollah dal nostro vocabolario, giacché l’idea stessa dello stato di Israele contro Hezbollah era pura follia sin dall’inizio. E sicuramente non avrà più alcuna importanza una volta che Israele sarà tornato al suo confine settentrionale internazionalmente riconosciuto”.
Amos Oz, intervistato da Ha’artez il 17 marzo 2000 (due mesi prima del ritiro israeliano dal Libano)