Il futuro governo d’Israele, tra diffusa preoccupazione e paternali ipocrite

A Gerusalemme sta per insediarsi un governo trincerato su posizioni estreme, e molti dovrebbero farsi un serio esame di coscienza anziché stracciarsi le vesti e abbandonarsi alle solite prediche

Di Marco Paganoni

Da sinistra: Itamar Ben Gvir (Otzma Yehudit), Benjamin Netanyahu (Likud), Bezalel Smotrich (Sionismo Religioso)

Gerusalemme, abbiamo un problema (per parafrasare Jim Lovell, comandante dell’Apollo 13). Direi, un grosso problema.

Riepilogo telegrafico. Dopo quattro elezioni anticipate non risolutive, lo scorso primo novembre esce dalle urne una chiara maggioranza: 64 seggi al blocco pro-Netanyahu composto da Likud (primo partito con 32 seggi), due partiti ultra-ortodossi e tre formazioni di estrema destra guidate da Bezalel Smotrich, Itamar Ben-Gvir e Avi Maoz. Benjamin Netanyahu riceve l’incarico di formare il nuovo governo e dice di poterlo fare in un paio di settimane. Passa un mese e il governo ancora non c’è. Netanyahu deve chiedere una proroga e venerdì scorso il presidente Isaac Herzog gli concede altri dieci giorni.

Come mai? Spiega Tal Shalev sul Jerusalem Post: “Ingenuamente si poteva pensare che il blocco omogeneo destra/ultra-ortodossi si sarebbe affrettato a tornare al potere senza soffermarsi troppo su cariche e ministeri. Ma per quanto siano ideologicamente vicini, questi partiti sono divisi da fazioni ed ego in competizione tra loro. E dopo quasi quattro anni di assoluta fedeltà a Netanyahu, ora passano all’incasso e il processo di costruzione della coalizione ha iniziato a protrarsi, dando agli alleati di Netanyahu il tempo di sviluppare appetiti e avanzare sempre più richieste: non solo in termini di portafogli e ministeri, ma anche riforme di ampia portata, budget importanti, inedite attribuzioni di poteri”. Netanyahu, forte sulla carta, in realtà ha le mani legate: non può fare a meno di questi alleati, che gli garantiscono lealtà a fronte dei suoi noti problemi con la giustizia; né può minacciare di rimpiazzarli facendo appello, come in passato, a leader del campo avverso tipo Yair Lapid o Benny Gantz. I suoi margini di manovra sono ridottissimi per cui, continua Tal Shalev, “deve soccombere a quasi tutte le loro richieste” suscitando profonde inquietudini nel pubblico in generale e un crescente nervosismo persino nello stesso Likud.

La 25esima Knesset, eletta il primo novembre 2022 (affluenza al voto: 70.63%) – clicca per ingrandire

Per capire quanto possano essere diffuse le inquietudini bisogna ricordare che solo 30.293 voti separano i due campi politici contrapposti (calcolando anche i voti dispersi: 150mila del Meretz e 138mila di Balad, le due maggiori liste che non hanno superato il quorum del 3,25%). Le formazioni ultra-ortodosse e di estrema destra alleate di Netanyahu rappresentano meno di un quarto dei voti espressi (1.189.628 su 4.764.742) e alla Knesset contano 32 seggi su 120. In particolare, l’estrema destra di Smotrich, Ben-Gvir e Maoz rappresenta solo un decimo dell’elettorato.

Dunque: Gerusalemme, abbiamo un problema. Netanyahu sta varando una coalizione di governo egemonizzata da persone e programmi che non riflettono il sentire della maggioranza della popolazione. Lo conferma un sondaggio pubblicato venerdì dall’Israel Democracy Institute secondo il quale meno di un terzo degli israeliani è favorevole alle principali riforme in materia di religione promosse dai partiti della coalizione in fieri: disconoscimento delle conversioni non ortodosse, apertura a segregazioni di genere in eventi pubblici, abolizione della “clausola del nipote” nella Legge del Ritorno (che riconosce la cittadinanza ha chi ha un solo nonno ebreo), aumento dei benefici statali agli uomini interamente dediti a studi religiosi, revoca della recente privatizzazione della certificazione kashrut ecc. Anche la proposta di “condonare” retroattivamente gli avamposti costruiti in modo abusivo nei Territori risulta sostenuta solo dal 36% degli intervistati.

Il che ci porta a un altro aspetto dello scenario post-elettorale israeliano, quello che viene denunciato – soprattutto all’estero – come un arroccamento del paese su posizioni “contrarie alla pace” con i palestinesi. E qui abbondano i commentatori che dicono di vedere confermata l’idea fissa che Israele sia sempre stato quello intransigente, quello ostile alle concessioni e dunque l’unico responsabile della mancata pace “a due stati” con i palestinesi. I quali palestinesi – dovremmo credere – prima dell’avvento di Smotrich e Ben-Gvir non chiedevano altro che di sedere a negoziare una pacifica soluzione di compromesso.

“Palestina libera dal fiume al mare”. Scrisse Amos Oz: “Se i palestinesi vogliono anche Israele sappiano che io, vecchio pacifista con il cuore infranto, salirò sulle barricate a combattere per la sopravvivenza del mio stato ebraico”

Cerchiamo allora di rinfrescare un po’ la memoria. Trent’anni fa gli israeliani diedero fiducia a Yitzhak Rabin perché tentasse la strada della pace con l’Olp di Yasser Arafat: e furono gli Accordi di Oslo, la nascita dell’Autorità Palestinese ma anche l’inizio degli attentati suicidi sugli autobus israeliani. Ventidue anni fa, gli israeliani rinnovarono a Ehud Barak il mandato di offrire un compromesso di pace: e furono i (falliti) negoziati di Camp David. Ricorda Zev Farber: “Barak, che aveva accettato una soluzione a due stati senza precedenti, tornò in patria sconfitto. Arafat, che l’aveva rifiutata, tornò trionfante e lanciò la seconda intifada, con una serie allucinante di attacchi terroristici in tutto Israele: cosa che sostanzialmente pose fine a qualsiasi reale fiducia della maggioranza degli ebrei israeliani in una soluzione di compromesso a due stati”. Scriveva in quei giorni Amos Oz: “Barak è andato a Camp David per offrire la soluzione che io preconizzavo oltre trent’anni or sono: due stati uno vicino all’altro, con una medesima capitale divisa in due, il riconoscimento reciproco e la mutua accettazione. Eppure i palestinesi hanno detto no. Se vogliono avere anche Israele, sappiano che mi troveranno dalla parte dei loro nemici. Io, vecchio pacifista con il cuore infranto, salirò sulle barricate a combattere per la sopravvivenza del mio stato ebraico” (Corriere della Sera, 27 luglio 2000). Dopodiché, ogni residua speranza fu spazzata via dallo schieramento di Hezbollah nel Libano meridionale subito dopo il ritiro delle forze israeliane (2000), la caduta della striscia di Gaza nelle mani di Hamas poco dopo il ritiro di militari e civili israeliani (2005/2007), il no di Abu Mazen all’ennesima offerta di compromesso a due stati avanzata da Ehud Olmert (2008).

“Da quel momento – continua Zev Farber – siamo entrati in una zona in cui né la destra né la sinistra hanno una soluzione da proporre. La destra parla di annessione, ma non spiega come potremmo inglobare una popolazione di due milioni di arabi senza diritto di voto e in guerra civile perpetua, né come gli israeliani potrebbero accettare e giustificare una tale situazione davanti a se stessi e al mondo in generale. La sinistra e il resto del mondo continuano a ripetere ‘soluzione a due stati’ come un mantra, ma qui nessuno vede come la si possa realizzare senza mettere in grave pericolo lo stato ebraico dato che non sono mai cambiate le rivendicazioni massimaliste dei palestinesi” e non è mai cessato il terrorismo, oltretutto sponsorizzato da potenze come l’Iran. “Quando nessuno dispone di un piano fattibile – conclude Farber – gli ebrei israeliani preferiscono sbagliare esagerando in cautela e diffidenza”.

Fatah: “Noi, il popolo palestinese, stiamo conducendo la resistenza contro l’esistenza di Israele”

“E’ avvenuto un fatto politicamente colossale – ha sintetizzato Sergio Della Pergola in una conferenza del 30 novembre – Il fondamentalismo di parte del movimento palestinese non ha ottenuto assolutamente nulla per i palestinesi, ma ha ottenuto lo sfasciamento del movimento pacifista israeliano. Alle elezioni del 1969, dopo la guerra dei sei giorni, laburisti e Meretz (e liste affiliate ndr) ebbero la maggioranza assoluta al parlamento: più di 60 seggi su 120. Oggi ne hanno quattro. Evidentemente il pubblico si è disamorato”.

Come potrebbe essere altrimenti? Si considerino anche solo le ultime settimane. Il 6 novembre Sirhan Yousef, alto esponente di Fatah, il movimento che fa capo ad Abu Mazen, ribadisce alla tv iraniana Al-Alam che “ogni israeliano è un nemico”, che Fatah non riconosce “l’entità sionista” e che gli accordi firmati “sono solo un passo” per espugnare tutta la terra mediante “la lotta armata in ogni sua forma”: frasi cadute, come sempre, nel silenzio e nell’indifferenza di tutti i predicatori di pace sempre pronti a incolpare Israele. Il 30 novembre, l’Assemblea Generale dell’Onu approva una risoluzione che definisce “catastrofe” (nakba) la fondazione stessa dello stato ebraico nel 1948. Pochi giorni dopo la relatrice speciale Onu per i diritti umani nei Territori, l’italiana Francesca Albanese, presenzia a un evento organizzato a Gaza da Hamas e Jihad Islamica (gruppi designati come terroristi da Stati Uniti e Unione Europea) ed esorta i palestinesi alla “resistenza” armata.

Sì, a Gerusalemme sta per insediarsi un governo dai tratti oscurantisti, trincerato su posizioni contrarie a trattative e concessioni. Personalmente ne siamo turbati e preoccupati. Ma sono molti quelli che dovrebbero farsi un serio esame di coscienza, anziché stracciarsi le vesti e abbandonarsi alle solite paternali. Se nei decenni scorsi gli stati democratici, gli organismi internazionali, i mass-media, gli intellettuali, gli artisti, le associazioni civili e religiose avessero espresso una convinta solidarietà verso Israele quando apriva alla pace e subiva rifiuti e attentati, anziché attaccarlo e condannarlo ogni volta che si difendeva, forse agli israeliani sarebbe rimasta un po’ di fiducia e forse avrebbero votato diversamente.

(Da: informazionecorretta.com, 11.12.22)