Il giorno in cui Abu Mazen passò dal rifiuto di Trump all’abbraccio coi terroristi

Il messaggio trasmesso in tv a reti unificate è inequivocabile: no a Israele e ad ogni possibilità di riconciliazione, sì a Hamas e al terrorismo

Di David Horovitz

David Horovitz, autore di questo articolo

Giovedì scorso, durante una conferenza stampa congiunta, Jibril Rajoub di Fatah e Saleh al-Arouri di Hamas hanno promesso di lavorare insieme contro le preannunciate scelte unilaterali d’Israele in fatto di estensione della sovranità e per “abbattere” la proposta di pace dell’amministrazione Trump. “Metteremo in atto tutte le misure necessarie per garantire l’unità nazionale – ha proclamato Rajoub da Ramallah, mentre al-Arouri assisteva in collegamento video da Beirut – Oggi vogliamo parlare con una sola voce”. Il loro coordinamento aprirà “una nuova fase che assicurerà un servizio strategico al nostro popolo” ha esordito al-Arouri, aggiungendo minacciosamente che Hamas “userà tutte le forme di lotta e resistenza contro il progetto di annessione”.

Se l’evento-bomba fosse stato organizzato da un avversario interno di Abu Mazen, avrebbe rappresentato un intollerabile atto di sfida contro di lui. Dopo tutto quello che si vedeva era uno dei più importanti collaboratori di Abu Mazen – un ex capo della sicurezza preventiva dell’Autorità Palestinese e suo potenziale successore, uno che un tempo operava in stretto coordinamento con le forze di sicurezza israeliane – dichiarare pomposamente che da questo momento in poi Fatah collaborerà con Hamas, pronta a fare squadra “in armonia al 100%” con un’organizzazione islamista terrorista dichiaratamente votata alla distruzione di Israele: la stessa organizzazione islamista terrorista che 13 anni fa ha cacciato brutalmente il Fatah di Abu Mazen dalla striscia di Gaza, e che avrebbe fatto lo stesso da tempo anche in Cisgiordania se Fatah e Abu Mazen non fossero stati protetti dalla generale presenza delle forze di sicurezza israeliane.

Ma l’esibizione di fraterna “unità” fra Rajoub e al-Arouri – il capo in esilio dell’infrastruttura terroristica di Hamas in Cisgiordania, l’uomo che nel 2014 orchestrò il sequestro e assassinio di tre adolescenti israeliani che tornavano a casa dalla loro yeshiva a Gush Etzion, poco a sud di Gerusalemme – non è stato un calcolato atto di sfida contro Abu Mazen. Al contrario. E’ stato piuttosto, un duro colpo per tutti quelli sul versante sionista che, a dispetto di anni di prove contrarie, continuano a considerare Abu Mazen come un potenziale interlocutore con il quale Israele potrebbe arrivare a un accordo di pace affidabile.

Il rappresentante di Fatah Jibril Rajoub, a Ramallah, partecipa alla video-conferenza con il vice capo di Hamas Saleh Arouri, in collegamento da Beirut

Ed è stata l’amara (ma prevedibile) conferma dell’opinione che ha, invece, la grande maggioranza degli israeliani, rafforzata negli anni dell’intransigente gestione post-Arafat di Abu Mazen: l’opinione per cui Israele non può permettersi di rischiare di cedere un territorio confinante ai palestinesi finché sono sotto il dominio di capi come quelli. E non farà che rafforzare la posizione di quelli, guidati dal primo ministro Benjamin Netanyahu, che sono pronti a escludere la prospettiva di un futuro accordo, perpetuando con l’annessione unilaterale il groviglio in cui sono avviluppati Israele e palestinesi.

L’impegno per la collaborazione tra Fatah e Hamas proclamato giovedì da Rajoub e al-Arouri, un terrorista su cui pende una taglia americana da 5 milioni di dollari, è stato preventivamente approvato dal presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen. L’evento congiunto è stato acclamato il giorno stesso dal primo ministro dell’Autorità Palestinese Mohammad Shtayyeh, ed è stato trasmesso sia dalla tv dell’Autorità Palestinese che da quella di Hamas. Il messaggio inviato da Abu Mazen al mondo che osservava, ma soprattutto alla sua stessa gente, è inequivocabile: no a Israele e a qualunque possibilità di riconciliazione, sì a Hamas e al terrorismo.

Non c’è mai stata la minima possibilità che Abu Mazen – lo stesso Abu Mazen che nel 2008 scelse di lasciar cadere l’offerta dell’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert che concedeva quasi tutto ciò che i palestinesi dicevano di volere, compreso il 100% dei Territori grazie a scambi di terre alla pari e una capitale condivisa a Gerusalemme incluso un ruolo nella supervisione dell’area dei Luoghi Santi – si sarebbe mai impegnato con la proposta “pace per la prosperità” dell’amministrazione Trump, che comporta una offerta assai meno generosa di quella di Olmert e una cornice per lo stato palestinese sottoposta a notevoli condizioni.

13 novembre 20918: poster del Dipartimento di Stato Usa che offre una taglia di 5 milioni di dollari per informazioni che portino alla cattura di tre terroristi fra cui (al centro) il vice capo dell’ufficio politico di Hamas Saleh al-Arouri. Gli altri due sono l’ex capo dei collegamenti di Hezbollah con i gruppi terroristici palestinesi Khalil Yusif Mahmoud Harb e il comandante delle forze speciali di Hezbollah in Siria e Yemen, Haytham Ali Tabatabai

Abu Mazen, che ospitò calorosamente il presidente Donald Trump a Betlemme nel maggio 2017, mise in chiaro quale fosse la sua strategia sette mesi dopo, quando interruppe tutti i contatti con l’amministrazione dopo che Trump aveva formalmente riconosciuto che la capitale di Israele è a Gerusalemme, sebbene il riconoscimento presidenziale volutamente non specificasse le dimensioni della sovranità israeliana nella città lasciando aperta anche qui la possibilità di una sovranità palestinese. Da allora il capo dell’Autorità Palestinese ha ribadito il suo rifiuto in tutti i modi, molti dei quali pesantemente controproducenti per la sua stessa popolazione: la continua istigazione all’odio contro Israele e la martellante negazione della storia ebraica in Terra d’Israele allo scopo di convincere i palestinesi che a nessun titolo gli ebrei hanno diritto ad esercitarvi una loro sovranità; dirottando i fondi d’assistenza straniera verso il pagamento di stipendi e vitalizi ai terroristi e alle loro famiglie; rifiutando negli ultimi mesi i trasferimenti dei dazi riscossi da Israele per conto dell’Autorità Palestinese, essenziali per pagare i dipendenti palestinesi; giungendo persino a respingere due forniture di aiuti umanitari anti-covid-19 degli Emirati Arabi Uniti per il fatto che sono stati sbarcati nell’aeroporto israeliano Ben Gurion.

Conseguentemente, quando nelle ultime settimane vari interlocutori, tra cui re Abdullah di Giordania, hanno esortato Abu Mazen a sventare la mossa unilaterale di Netanyahu sull’annessione informando semplicemente gli americani di essere pronto a riprendere il negoziato, Abu Mazen non l’ha fatto e anzi ha sospeso la cooperazione con Israele in materia di sicurezza e ha intensificato l’offensiva diplomatica anti-israeliana. Ha poi affermato d’aver presentato una “controproposta” al Quartetto per il Medio Oriente (l’inconcludente forum composto da Stati Uniti, Unione Europea, Nazioni Unite e Russia) per uno stato palestinese “con un numero limitato di armamenti”. Ma qualsiasi credibilità di questa controproposta, i cui dettagli completi non è ancora dato conoscere, è ora demolita dalla nuova alleanza con Hamas, un’organizzazione terrorista che non ha mai fatto nemmeno finta di rinunciare all’obiettivo di cancellare Israele dalla faccia della Terra.

(Da: Times of Israel, 6.7.20)

“Certamente mantenendosi vigili, l’unità e l’armonia nel popolo e fra i movimenti palestinesi svolgerà un ruolo efficace nell’annientamento delle trame del nemico e apporterà l’aiuto divino”. Lo ha scritto la Guida Suprema iraniana ayatollah Ali Khamenei in una lettera inviata in questi giorni al capo di Hamas, Ismail Haniyeh. “L’Iran – prosegue la lettera – esattamente come ha fatto finora in base al suo dovere religioso e umano, non risparmierà alcuno sforzo per sostenere il popolo oppresso della Palestina e ricacciare la malvagità del regime sionista fittizio e usurpatore”.