Il mito dell’unità palestinese

Quella palestinese è l’epitome di una società spaccata da tribalismo e settarismo

Da un articolo di Moshe Elad

image_2583A fine luglio, fonti egiziane ufficiali hanno precipitosamente annunciato che il 25 agosto 2009 si terrà la “Giornata dell’unità palestinese”. Piccolo promemoria per chi avesse dimenticato: i rappresentanti delle varie fazioni palestinesi siedono al Cairo da lunghi mesi (forse anni) insieme a mediatori egiziani, ma non riescono a firmare un qualunque memorandum d’intesa basilare che favorisca finalmente la nascita di un “governo di unità nazionale palestinese”.
Gli egiziani, con l’aiuto americano, hanno tentato praticamente tutto pur di ottenere questo risultato. Sono state fatte pressioni dall’America e dall’Europa su Israele riguardo a vari temi, soprattutto su avamposti e insediamenti; sono stati promessi generosi pacchetti d’aiuti, tra cui una sovvenzione multimilionaria destinata a “riabilitare Gaza” con un vincolo esplicito a fornire una somma di denaro senza precedenti da depositare su un conto congiunto… eppure la prospettiva di un governo unitario rimane lontana.
Non c’è dubbio che il teatrale annuncio egiziano circa il presunto “serrate i ranghi” all’interno della società palestinese rappresenta più che altro il desiderio di un risultato e l’espressione di una speranza, o perfino una trasparente manovra rivolta ai mass-media per farsi perdonare una lunga frustrazione, piuttosto che un fatto concreto o il conseguimento di un obiettivo.
Bisognerebbe ricordare che gli esponenti della più grande potenza araba, con a capo il ministro dei servizi segreti Omar Suleiman, vengono considerati nel mondo arabo una tigre di carta. I loro ripetuti fallimenti nel perseguire un compromesso tra due gruppi arabi marginali come Fatah e Hamas suscitano reazioni sprezzanti. “Che cosa è successo al grande Egitto? – si chiedono gli arabi – Un leone non riesce a far riconciliare due volpi?”
Sarebbe bene che gli egiziani, oltre a coloro – europei e americani – che promuovono “l’unità palestinese”, capissero che i loro attuali sforzi sono destinati al fallimento. La nozione di unità palestinese è in gran parte un paradosso. Il pubblico palestinese non è mai stato coeso e unito, e ci sono molti dubbi sulla prospettiva di una sua futura unità. Negli ultimi cento anni è stato l’epitome di una società spaccata e divisa che fa fatica a produrre una leadership accettata da tutte le fazioni. Per questa ragione la società palestinese ha affidato il proprio destino nelle mani di elementi stranieri e ha incoraggiato l’intervento straniero, invece di prendere le redini.
Gli storici che studiano la società palestinese tendono a indicare questo pubblico come un classico esempio di come separatismo e settarismo impediscano qualunque possibilità di esprimere aspirazioni nazionali, compreso il desiderio di indipendenza. Perfino gli studiosi arabi e palestinesi hanno manifestato pubbliche riserve sul ben noto “senso della famiglia” e sul “tribalismo” palestinese, che hanno impedito la possibilità di sbarazzarsi di regimi stranieri come i governi ottomano, inglese e giordano, servendoli invece come servi sottomessi.
[…] Qualcuno dirà che in questo decennio il settarismo palestinese si è manifestato nello scontro ideologico tra il campo laico-nazionalista e il campo religioso-fondamentalista (Fatah vs. Hamas). In effetti, questa è l’ostilità apertamente visibile. Ma lo sfondo del conflitto nascosto e reale è un po’ più difficile da identificare: vale a dire, il conflitto sui nodi fondamentali. Lo scontro vero è su quale dovrebbe essere il tema principale all’ordine del giorno nazionale: il diritto al ritorno o la necessità di restare attaccati alla terra. In altri termini, il conflitto oppone coloro che chiedono la rimozione degli insediamenti e il recupero di quelle terre contro coloro che chiedono il ritorno alle case in Israele da cui sono stati espulsi o sono fuggiti.
A chi si domanda come mai gli americani mostrino tanta insistenza nel porre in cima alle loro richieste a Israele la rimozione degli avamposti e il congelamento degli insediamenti, la spiegazione è semplice: l’espressione pratica del voler restare attaccati alla terra sono gli avamposti e gli insediamenti. Dunque Obama ha già deciso: non farà pressione su Israele sul tema del diritto al ritorno, ma gli israeliani pagheranno questo con la rinuncia a restare attaccati alla terra, cioè agli insediamenti. Accettando questo baratto, Israele soddisferà Obama. Ma, ancora una volta, vedremo solo metà del pubblico palestinese sottoscrivere questo approccio.

(Da: YnetNews, 28.07.09)

Nella foto in alto: palestinesi del gruppo qaedista Jund Ansar Allah, a Rafah (striscia di Gaza)