Il modello Cheney

Il punto, in sostanza, è se il conflitto ruota attorno alla questione dei confini o dell’esistenza

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_2057Il vice presidente degli Stati Unitui Richard Cheney non è famoso per fare discorsi fiammeggianti, ma talvolta il meno vale di più. Se gli Stati Uniti si fossero limitati a ciò che Cheney ha detto sabato sera a Gerusalemme, e ad elaborare in quello stesso spirito, è probabile che le prospettive di pace e moderazione in Medio Oriente sarebbero oggi sostanzialmente maggiori.
In conferenza stampa accanto al primo ministro israeliano Ehud Olmert, Cheney ha iniziato ricordando il 60esimo anniversario dello Stato di Israele, “sorto dalle ceneri della seconda guerra mondiale… uno dei più grandi miracoli della storia”. E ha ritenuto di dover sottolineare il fatto che “Israele è sopravvissuto in questi sei decenni nonostante le frequenti aggressioni contro la sua stessa esistenza”.
Poi, in quella che è stata forse la sua osservazione chiave, Cheney ha affermato: “La storia ha chiaramente dimostrato che, quando hanno incontrato interlocutori arabi come Anwar Sadat e re Hussein di Giordania che accettavano la presenza di Israele ed erano disposti e capaci di onorare i loro impegni, gli israeliani sono sempre stati pronti a fare laceranti sacrifici nazionali in nome della pace. Non ho dubbi che questo vale anche coi palestinesi”.
Gran parte di quest’affermazione potrebbe sembrare così basilare da essere banale. Ma nella realtà la ricerca della pace fra arabi e israeliani non viene costruita su queste premesse basilari, anche quella per lo più perseguita dagli Stati Uniti, per non dire dell’Europa o delle Nazioni Unite.
Bisogna capire che vi sono due modelli essenziali attraverso cui guardare al conflitto, che conducono verso approcci politici assai diversi fra loro.
Il modello standard è che se arabi e israeliani si sono combattuti per anni la colpa del perpetuarsi del conflitto ricade su entrambe le parti, o forse soprattutto su Israele giacché Israele è la “potenza occupante” e i palestinesi aspirano all’indipendenza all’interno della terra sotto il controllo di Israele.
Il secondo modello non ha praticamente cittadinanza nei circoli diplomatici, anche se è quello spontaneamente espresso da Cheney. Secondo questo modello, il mondo arabo si oppose alla creazione di Israele, cercò di distruggere Israele e ancora non è arrivato ad accettare il diritto di Israele ad esistere. Il vero ostacolo che blocca la pace è questo rifiuto arabo, e non un ipotetico rifiuto di Israele di permettere la nascita di uno stato palestinese.
A prima vita potrebbe sembrare che non vi sia poi questa grande differenza, all’atto pratico, fra i due modelli. Entrambi sembrano costruiti sull’idea che dovrebbero esserci due stati in quella scheggia di terra che sta fra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano. La questione di come distribuire le responsabilità per lo status quo può sembrare gretta, o puramente accademica, o una irrisolvibile questione di punti di vista. C’è invece una grande differenza pratica che salta all’occhio. In effetti, un processo di pace costruito sul secondo modello apparirebbe sostanzialmente diverso.
Il punto, in sostanza, è se il conflitto ruota attorno alla questione dei confini o dell’esistenza. Se è sui confini, allora si tratta di fare pressione su “entrambe le parti” perché arrivino a un accordo negoziato. Se invece il cuore della questione è il rifiuto arabo di accettare Israele entro qualunque confine, allora tutto lo sforzo deve essere concentrato nell’esigere dal mondo arabo che faccia questo passo indispensabile.
Un processo di pace volto a ottenere l’accettazione di Israele da parte araba dovrebbe partire da alcune semplici enunciazioni del problema. Gli Stati Uniti dovrebbero dichiarare che “Israele ha accettato e cerca di attuare la soluzione due popoli-due stati, per cui l’ostacolo principale alla pace è rappresentato dal restante rifiuto, fra molti palestinesi e all’interno di gran parte del mondo arabo, del legittimo diritto nazionali del popolo ebraico al proprio stato, lo Stato d’Israele”. Il successivo importante passo sarebbe chiedere agli stati arabi di dare l’esempio, anziché aspettare che lo facciano per primi i palestinesi, estremizzati e divisi. In effetti, gli stati arabi sono in ritardo, quando Mahmoud Abbas (Abu Mazen) incontra normalmente i leader israeliani mentre i leader dell’Arabia Saudita e di altri stati arabi si rifiutano tuttora di farlo.
Gli Stati Uniti potrebbero anche iniziare ad affermare costantemente che la pretesa di un “diritto al ritorno” in Israele, anziché nel futuro stato palestinese a fianco di Israele, equivale al rifiuto del diritto di Israele ad esistere. Ciò contribuirebbe a svelare il doppio gioco di coloro che sostengono di accettare Israele, ma poi con molto più fervore, rivolgendosi alla propria gente in arabo, spingono verso la distruzione demografica di Israele. La titubanza americana su questo sembra che aiuti Abu Mazen a breve termine, ma in realtà reca danno alla causa della pace.

(Da: Jerusalem Post, 24.03.08)