Il no automatico dei palestinesi alle proposte di pace

In Israele siamo abituati alla loro intransigenza, ma nel mondo arabo le reazioni potrebbero essere molto diverse

Di Shimrit Meir

Shimrit Meir, autrice di questo articolo

Anche ad uno scrutinio scrupoloso dei discorsi palestinesi, nei giornali e nei social network, è difficile trovare una sola voce significativa che non respinga totalmente il cosiddetto “accordo del secolo” del presidente americano Donald Trump. Da notare che i palestinesi non sanno nemmeno cos’è che rifiutano con tanto ardore, dal momento che i contenuti dell’annunciato piano di pace dell’amministrazione Trump rimangono vaghi, anche dopo l’intervista televisiva di Jared Kushner della fine di febbraio. Qui in Israele, nel frattempo, siamo così assuefatti all’intransigenza palestinese che non ci soffermiamo neppure più a domandarci: perché?

Anche tenendo conto delle esplicite inclinazioni filo-israeliane dell’attuale amministrazione americana, ben rappresentante dal trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, è difficile capire come un popolo che si trova in uno dei momenti più bassi della sua storia e che sostanzialmente vive di elemosina internazionale, possa rigettare sommariamente l’opportunità anche solo di ascoltare – non foss’altro per mere ragioni tattiche – una proposta che potrebbe significativamente migliorare le sue condizioni.

In giallo/ocra, lo stato palestinese che esisterebbe da più di dieci anni se nel 2008 i palestinesi avessero accettato la proposta Olmert (clicca per ingrandire)

Naturalmente non è la prima volta che i palestinesi dicono “no”, ma perlomeno ci si aspetterebbe una qualche forma di discussione seria sulla questione, data la loro situazione. Il popolo palestinese è cronicamente spaccato da quasi 12 anni: i due semi-stati, gestiti da Hamas e Fatah a Gaza e in Cisgiordania, sono deboli, poveri, in allontanamento fra loro ed entrambi, in una forma o nell’altra, alla ricerca con Israele di più o meno taciti accordi del tipo “calma in cambio di soldi”.

La questione palestinese – un tempo al centro del discorso politico arabo in Medio Oriente – è stata spinta ai margini. Abu Mazen potrebbe ancora riuscire a strappare al vecchio re saudita la promessa di non muoversi “alle spalle dei palestinesi”, ma il mondo intero sa dei traffici che suo figlio conduce con Israele. Il mondo arabo fa fatica a capire cosa vogliano i palestinesi e come possano permettersi di continuare a gestire i loro affari in maniera così fallimentare. “Se volete liberare tutta la Palestina, ahlan wasahlan (“prego, accomodatevi”) – ha esclamato un telecronista egiziano – ma dovete essere uniti. Se invece volete uno stato a fianco di Israele, perché continuate a ripetere no e ancora no, quando ne ve ne viene offerto uno?”.

Giacché il rifiuto automatico dei palestinesi è un dato di fatto, cos’è che motiva esattamente Jared Kushner, l’uomo di punta di Trump nel processo di pace? Spera ancora che i palestinesi cambino idea, quando apprenderanno i dettagli del piano? Probabilmente no. Non si è neanche preso la briga di rilasciare un’intervista a un mass-media palestinese indirizzando piuttosto i suoi commenti al mondo arabo, e in particolare ai paesi del Golfo (Sky Arabic, a cui ha concesso l’intervista, è finanziata dagli Emirati Arabi Uniti). In altre parole: sta pensando al giorno dopo il “no” palestinese, quando i paesi arabi potranno dire loro: “Ancora una volta avete respinto una proposta generosa, ma noi non resteremo ostaggi della vostra intransigenza”.

Può sembrare inverosimile, ma il lavorìo per preparare la piazza araba a relazioni con Israele che si possano definire “nella sfera della normalizzazione” è in corso già da alcuni anni. “Se la dirigenza palestinese avesse usato il denaro donato dagli arabi alla Palestina dal 1948 – ha twittato un giornalista iracheno la scorsa settimana – avrebbero già costruito 50 città come Tel Aviv, 40 come Dubai e 30 come Riyadh”. Ed è stato sommerso di like.

(Da: YnetNews, 28.2.19)