Il nucleare necessario

Chi ha da temere dalla bomba israeliana? Solo chi vorrebbe avere mano libera per una guerra totale contro Israele

M. Paganoni per NES n. 10, anno 18 - ottobre 2006

image_1401Il nucleare israeliano, quello ad uso civile, non è un segreto: sono noti i due principali impianti di ricerca (Dimona e Sorek); la Commissione Israeliana per l’Energia Atomica, fondata nel 1952 da David Ben Gurion, è presente con indirizzo e recapiti sul sito del governo israeliano; Israele collabora da sempre con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ed è firmatario di vari accordi internazionali come la “Convenzione sulla tempestiva notifica di incidente nucleare” (entrata in vigore nel 1986, dopo il disastro di Chernobyl), la “Convenzione per la protezione fisica dei materiali nucleari” (entrata in vigore nel 1987), la “Convenzione sull’assistenza in caso di incidenti nucleari o di emergenza radiologica” (ratificata da Gerusalemme nel 1989).
Le cose stanno in modo assai diverso per quanto riguarda il nucleare militare. Su questo, sin dai primi anni ’60 Israele persegue quella che viene definita una strategia di “intenzionale ambiguità”. In altri termini, le autorità ufficialmente non smentiscono né confermano l’esistenza di un programma israeliano per armi nucleari, limitandosi a ribadire che Israele “non sarà il primo paese a introdurre armi nucleari in Medio Oriente”: posizione a sua volta volutamente ambigua, giacché da un lato non esclude che possa esistere un programma di produzione (“la bomba smontata”), mentre dall’altro non è dato sapere con certezza se altri paesi abbiano già introdotto armi del genere nella regione, “liberando” – per così dire – l’opzione israeliana.
Quand’anche non avesse l’atomica, Israele ha tutto l’interesse che i suoi nemici giurati, quelli che lo vedrebbero volentieri cancellato dalla carta geografica, siano fermamente convinti che non solo ne disponga, ma che sia disposto ad usarla: eventualmente anche come ritorsione “automatica” dopo aver subìto un “primo colpo” non convenzionale, verosimilmente devastante. Ecco perché Israele fa sapere volentieri che da qualche parte, sotto la superficie dei mari mediorientali, sono sempre in navigazione i suoi sottomarini della classe Dolphin capaci di lanciare missili (anche nucleari?) contro una nazione che avesse la malaugurata idea di attaccare in quel modo Israele. Il messaggio è implicito ma preciso: i vicini che volessero infliggere un attacco mortale a Israele, con armi convenzionali o non convenzionali, sappiano che il prezzo da pagare sarebbe molto più alto di quanto non siano disposti a rischiare. Insomma, deterrenza allo stato puro.
D’altra parte Israele, anche nel caso abbia davvero l’atomica, non ha interesse a rivelarla formalmente, né ad esibirla minacciando sfracelli da superpotenza (come facevano a loro tempo sovietici e americani) onde non offrire un pretesto ufficiale a paesi mediorientali che non aspettano altro per dotarsi di armi non convenzionali, né incorrere nella sanzione dei paesi alleati, in primo luogo gli Stati Uniti. Insomma, nel caso della deterrenza nucleare, per una volta gli israeliani hanno saputo mettere da parte la loro proverbiale chutzpah (sfrontatezza), gestendo con discrezione e misura l’arma “potenziale” per antonomasia.
Sul piano del diritto internazionale, l’ambiguità israeliana è paradossalmente protetta dal “Trattato di non proliferazione delle armi nucleari”, unico impegno multilaterale vincolate in tema di armi atomiche. E lo è per due motivi. Primo, perché il (presunto) programma nucleare militare israeliano risale a prima che il Trattato entrasse in vigore (1970) e addirittura a prima che venisse scritto (1968). In questo senso Israele (come le potenze ufficiali del club nucleare) non ha violato l’ingiunzione contenuta nel Trattato a “non diffondere armi nucleari e tecnologia nucleare militare” dalla sua entrata in vigore in poi.
In secondo luogo perché Gerusalemme non ha mai firmato il Trattato di Non Proliferazione: e non lo firma non perché non ne condivida in linea di principio le finalità, ma perché si riserva il diritto – questo sì ufficialmente – di dotarsi di quelle armi il giorno che lo facesse un suo nemico giurato. Il fatto che i paesi attorno a Israele abbiano sottoscritto il Trattato obiettivamente non sembra una grande garanzia. Basti ricordare che lo firmarono e ratificarono con tutti i crismi la Siria e l’Iraq nel 1969, l’Iran nel 1970 e la Libia nel 1975: quanto l’abbiano poi rispettato, giudichi il lettore.
È chiaro che, sul lungo periodo, Israele sarebbe ben lieto di vivere in un Medio Oriente interamente e veramente denuclearizzato. Ma Israele potrà aderire a un programma per la denuclearizzazione del Medio Oriente solo quando vi sarà la pace: una pace piena con tutti i suoi vicini arabi e islamici, compreso l’Iran e relativi satelliti. In mancanza di questa fondamentale garanzia, lo spauracchio nucleare israeliano resta necessario per la sicurezza di Israele e utile alla regione come fattore di stabilità.
“Sul piano morale – si leggeva tempo fa in un editoriale del Jerusalem Post (5.07.04) – Israele, in quanto paese edificato da sopravvissuti a un Olocausto e abitualmente minacciato di annientamento dai suoi vicini, è l’ultimo stato al mondo cui si dovrebbe chiedere di denuclearizzarsi. Ma quand’anche tale richiesta fosse giustificabile, comunque non ha senso attendersi che ad essa Israele aderisca. Si può star certi che l’opinione pubblica israeliana non crederà a nessuna promessa e non si farà impressionare da nessuna minaccia volta a fare dei suoi sistemi difensivi, così faticosamente conquisati, ciò che Dalila fece dei capelli di Sansone. Perseguire la pace in Medio Oriente cercando si spogliare Israele di tutti i suoi vantaggi strategici (dalla profondità territoriale alla superiorità militare) serve solo a convincere la popolazione israeliana che lo sforzo di denuclearizzare Israele risponda alla volontà non certo di tutelarlo, bensì di renderlo finalmente vulnerabile”.
“A causa dello squilibrio quantitativo che esiste tuttora tra Israele e mondo arabo – notava Shlomo Aharonson, professore di scienze politiche all’Università di Gerusalemme (Ma’ariv, 7.07.04) – non c’è alcuna vera ragione politica o strategica che costringa gli arabi ad accettare l’esistenza di Israele”. E’ la (presunta) inattaccabilità di Israele ciò che rende impensabile, da più di trent’anni a questa parte, una guerra senza quartiere contro Israele mentre, nel contempo, rende proponibili ritiri, concessioni territoriali, ipotesi di compromesso.
Chi chiede a Israele di rinunciare al suo potenziale nucleare o – peggio – chiede alla comunità internazionale di accettare che altri nella regione, come l’Iran e i suoi alleati, se lo procurino perché “non è giusto che l’abbia solo Israele”, dovrebbe innanzitutto porsi questa domanda: chi ha da temere dalla bomba israeliana? La risposta è evidente: solo chi vorrebbe avere mano libera in una guerra totale contro Israele. Dunque, infrangere il (presunto) monopolio di Israele sulle armi atomiche in Medio Oriente significa operare attivamente a favore di chi ha interesse a far scoppiare nella regione guerre totali, dalle conseguenze difficilmente immaginabili.