Il paradosso della “economia di pace”

Le intifade scoppiano proprio quando aumenta lo standard di vita palestinese

di Sever Plocker

image_2630I dati statistici sono evidente e agghiaccianti. Ogni volta che lo standard di vita nelle aree palestinesi della Cisgiordania raggiunge nuove vette, scoppia una intifada che fa tornare indietro la ruota. È accaduto nel 1987, è accaduto nel 2000, potrebbe accadere di nuovo oggi.
Le similitudini sono inquietanti. Di nuovo, proprio come ventidue anni fa, l’economia palestinese sta completando un ciclo di straordinaria crescita economica. Di nuovo, proprio come alla vigilia delle due precedenti intifade, i mass-media locali danno ampie e gioiose notizie del miracolo economico in corso a Nablus, a Ramallah, a Jenin: nuovi negozi che aprono, caffè strapieni, la disoccupazione che cala. E di nuovo l’opinione pubblica israeliana tende a illudersi che il problema palestinese sia praticamente superato vista questa realtà delle cose. A cos’altro dovrebbero aspirare i palestinesi quando hanno un’accresciuta autonomia e il loro standard di vita sale a razzo?
Giusto per ricordare, nell’agosto del 2000 decine di migliaia di israeliani si riversavano nei negozi di mobili nei sobborghi di Qalqiliya (in Cisgiordania); nel frattempo altri israeliani facevano lunghe code per salire sugli autobus che da Tel Aviv sud li portavano al casinò di Gerico. Stando ai dati forniti dal Fondo Monetario Internazionale, il reddito pro capite nelle aree dell’Autorità Palestinese negli anni 1995-2000 era cresciuto dell’8-10%. Eppure, nonostante questa sorprendente economia di pace, una scintilla marginale e provocatoria fu sufficiente per innescare l’intifada delle stragi, un’ondata di terrorismo che fece precipitare lo standard di vita palestinese indietro di una generazione e fece a pezzi la crescita economica israeliana. Il casinò di Gerico è ancora là, un enorme edificio abbandonato a concerta testimonianza del fallimento dei tentativi fin qui fatti di indurre la normalizzazione economica prima dell’accordo diplomatico.
La fede capitalistica nella capacità di una (parziale) prosperità economica di neutralizzare le spinte nazionalistiche, per quanto confuse e indefinite, sarebbe dovuta affondare già nove anni fa. A quanto pare invece non è successo. Oggi Netanyahu, Lieberman e Barak condividono l’idea che i palestinesi hanno già un’ampia autonomia politica nonché l’autonomia sulla sicurezza. Il che permetterebbe loro di realizzare in pratica gran parte delle loro aspirazioni nazionali e dei loro desideri di sovranità: è un “quasi stato” che comprende parlamento, tribunali, polizia, esercito, elezioni a suffragio universale, istituzioni pubbliche. Di più, al governo palestinese potrebbe essere data rappresentanza nelle istituzioni economiche internazionali se realmente lo volesse. Israele non vi si opporrebbe, così come non si oppone a tutti gli altri tratti caratteristici di indipendenza e sovranità.
In base della visione di Netanyahu, completamente diversa da quelle dei suoi predecessori Sharon e Olmert, i negoziati per un accordo sullo status finale vengono mantenuti solo per via della continuità diplomatica. Nel frattempo il conflitto israelo-palestinese si starebbe in gran parte ricomponendo e risolvendo, mentre le questioni ancora pendenti potranno certamente aspettare le generazioni future. Oggi Israele dovrebbe piuttosto aiutare i palestinesi a sviluppare un’economia di libero mercato e incoraggiare gli investimenti stranieri. Questa e non altre sarebbe la nostra missione nella regione. La normalizzazione economica, nota come “economia di pace”, darà risposta a tutto.
Può darsi che sia così, ma è più probabile di no. La normalizzazione economica minaccia gli elementi estremisti e rivoluzionari all’interno della società palestinese. E questi hanno giurato di non permettere che la normalizzazione metta radici. La percepiscono come un modo indiretto di riconciliarsi con l’occupazione. Un movimento di liberazione nazionale, a maggior ragione un movimento nazional-religioso, avvizzisce quando le masse scendono in strada per fare shopping e non per inscenare manifestazioni. Il rafforzarsi di una classe media palestinese, che ben potrebbe innamorarsi del tran-tran quotidiano in un relativo benessere, respingere la lotta in corso e godersi la prossimità con il grande mercato israeliano, è una totale maledizione agli occhi della dirigenza militante, e non solo lì. La tensione fra progresso economico e personale, da una parte, e impasse diplomatico e nazionale dall’altra lacera la società palestinese.
La prossima intifada, se deve scoppiare, potrebbe focalizzarsi sul Monte del Tempio, ma la sua logica non sarà realmente legata a sentimenti religiosi. Proprio come le volte precedenti, la sua origine sarà il mutevole cocktail dato dalla coppia vicolo cieco diplomatico e legami economici. Come si è visto, le due cose non vanno tanto d’accordo.

(Da: YnetNews, 8.10.09)

Nella foto in alto: lunedì a Rafah (striscia di Gaza), Hamas ha fatto inscenare a scolari palestinesi un processo “in effige” al presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), rappresentato fra le sbarre alle spalle della bambina, condannato al carcere a vita per il rinvio del voto Onu sul rapporto Goldstone