Il perché di una “virata a destra”

Il “mondo” continua a demonizzare il paese col quale dovrebbe piuttosto scusarsi

Da un articolo di Gil Troy

image_2408I critici in tutto il mondo e all’interno di Israele deprecano la “virata a destra” dell’elettorato israeliano e l’ascesa dell’“ultranazionalista” Lieberman e si affliggono per le fievoli prospettive della soluzione “due popoli-due stati” demonizzando ulteriormente il paese col quale dovrebbero piuttosto scusarsi. La “virata a destra” non è altro che il risultato del fallimento delle idee della sinistra in Israele, e del tradimento di Israele da parte dei democratici nel resto del mondo.
Gli israeliani hanno virato a destra per via del fallimento delle concessioni territoriali che si è combinato con la rottura di un patto con il resto del mondo. Per decenni i critici liberal hanno martellato due concetti nella testa degli israeliani. Il primo era che, se Israele si fosse ritirato dai territori conquistati nel 1967, i palestinesi e il resto del mondo arabo avrebbero fatto la pace. Il secondo assunto, collegato al precedente, era una sorta di patto implicito secondo cui, qualunque minaccia alla sicurezza Israele avesse dovuto affrontare a causa della cessione di territori, essa sarebbe stata controbilanciata dalla solidarietà e dal sostegno del resto del mondo.
Tragicamente, invece, né il processo di pace di Oslo né il disimpegno dalla striscia di Gaza hanno sortito questi risultati. Anzi, molti israeliani hanno la netta sensazione che, quanti più rischi Israele si è assunto per la pace, tanto più questi rischi si sono tradotti in sanguinose aggressioni e tanto più è cresciuta la condanna da parte del resto del mondo.
Naturalmente Israele ha le sue responsabilità. Ma per quanti passi falsi possa aver fatto, essi impallidiscono in confronto alle tre drammatiche verità che ora dominano la coscienza politica israeliana: le concessioni di Oslo si sono tradotte in ondate di terrorismo che hanno mietuto più di mille vite innocenti; il disimpegno da Gaza si è tradotto in migliaia di obici e missili lanciati sulla popolazione del sud di Israele; e in entrambe le occasioni, quando Israele finalmente si è deciso a difendersi, il coro della condanna mondiale è diventato così intenso da riattizzare l’antisemitismo.
Forse per via del fatto di vivere in una piccola democrazia circondata da autocrazie e da terrorismi votati alla loro distruzione, fatto sta che gli israeliani sono particolarmente sensibili all’opinione pubblica mondiale. Si aggiunga poi che le incessanti campagne a base di “Hitler non ha terminato il lavoro” e “gli ebrei sono scimmie e maiali” risultano particolarmente dolorose per una popolazione che sente ancora vive le ferite della Shoà.
Certo, parlare dell’atteggiamento del “resto del mondo” è una evidente ipersemplificazione. Ma funziona, considerando quanto appaiono monolitiche le critiche a Israele e quanto si siano dimostrate letali questo genere di campagne in passato.
È particolarmente demoralizzante vedere come la rabbia per il comportamento di Israele serva ad assolvere i palestinesi da ogni responsabilità, fin quasi a sdoganare il terrorismo. “Il mondo” dovrebbe invece biasimare i palestinesi per aver sistematicamente silurato l’opzione “due stati”, dapprima abbandonando i negoziati a favore del terrorismo nel settembre 2000, e poi di nuovo per scegliendo di trasformare Gaza in una base di lancio di missili Qassam anziché adoperarsi per farne un embrione e un modello del loro futuro stato. “Il mondo” (con tutti i suoi aiuti ai palestinesi) dovrebbe essere furibondo per l’avanzata di Hamas, sanguinari islamisti che non solo continuano ad assassinare gli “infedeli” ma torturano e uccidono anche i fratelli musulmani che osano dissentire (eppure non si sono viste bruciare nelle piazze del “mondo” le bandiere di Hamas, quando Hamas imponeva con le decimazioni il suo regime nazi-islamista ai palestinesi di Gaza). “Il mondo” dovrebbe esigere dai palestinesi che abbandonino finalmente la cultura del martirio, e si assumano qualche responsabilità storica per la loro incapacità di accettare un compromesso. “Il mondo” dovrebbe notare come molti arabi israeliani abbiano alimentato la campagna di Lieberman applaudendo leader demagogici come Azmi Bishara, che ha sputato odio contro lo stato ebraico (e, incriminato per aver aiutato Hezbollah durante la guerra del 2006, ha dato le dimissioni dalla Knesset ed è riparato all’estero trovando caldo rifugio nelle capitali del mondo arabo). E invece, gli errori, gli eccessi e i crimini dei palestinesi vengono tollerati e giustificati: “il mondo” assolve per principio i palestinesi.
Su questo sfondo, quello che è davvero notevole è come molti israeliani restino comunque disponibili a rischiare per la pace, e molti esponenti provenienti dalla destra come Tzipi Livni e Ehud Olmert siano oggi sostenitori della soluzione “due popoli-due stati”. Lo stesso Lieberman è favorevole alla spartizione territoriale. Questa ampia disponibilità dice quanto sia radicata in Israele la cultura del compromesso e della pace. Nonostante tutto quello che si sente sulla “virata a destra”, Kadima, il partito centrista della Livni, pare abbia preso il più alto numero di voti; il rapporto che si prospetta fra destra e sinistra di 64 seggi contro 56 rimane un rapporto assai equilibrato, e Israele rimane la sola democrazia liberale in Medio Oriente a giudicare dal suo impegno verso l’eguaglianza, le regole democratiche, la giustizia sociale, la sensibilità verso le donne, gli omosessuali, la diversità etnica.
Nelle prossime settimane, mentre i politici israeliani giocheranno al tavolo delle trattative i voti ottenuti come mercanti in un suk mediorientale, l’opinione pubblica mondiale non dovrebbe farsi sfuggire il sottotesto che sta dietro alla crudezza di questi riti. Indipendentemente da quella che sarà la coalizione di governo, indipendentemente dalla persona che ne sarà alla guida, il paese continua a perseguire una vera pace. Mentre i suoi critici continueranno sempre a guardare quasi esclusivamente alle carte che hanno in mano gli israeliani e a vivisezionare le loro scelte come se tutto dipendesse soltanto da Israele, i palestinesi continueranno ad avere nelle loro mani il loro destino molto più di quanto non amino ammettano i loro sostenitori. Se i palestinesi vogliono davvero uno stato e la pace con Israele, quello che devono fare è darsi una cultura politica votata all’edificazione della nazione, e non al martirio. E tutti coloro che desidererebbero vedere reali progressi in Medio Oriente, anziché spaccare il capello in quattro sulla scena politica del democratico Israele, dovrebbero innanzitutto premere con determinazione per delle vere riforme in campo palestinese, e ripristinare un autentico patto di lealtà tra “il mondo” che vuole la pace e Israele che si assume grandi rischi per ottenerla.

(Da: Jerusalem Post, 12.02.09)

Nella foto in alto: Gil Troy, autore di questo articolo