Il prerequisito per la pace è che Israele sia imbattibile, e pragmatico

La potenza militare e la forza economica hanno contribuito alla normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, insieme alla disponibilità a lasciar cadere i progetti di annessione unilaterale

Di Yossi Klein Halevi

Yossi Klein Halevi, autore di questo articolo

Il trattato di pace firmato da Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein è una vittoria retroattiva su una delle più grandi minacce che Israele abbia mai dovuto affrontare.

Quasi mezzo secolo fa, subito dopo la guerra dello Yom Kippur (ottobre 1973), i paesi arabi produttori di petrolio imposero un boicottaggio contro i paesi considerati troppo vicini a Israele. I paesi appartenenti all’OPEC bloccarono le esportazioni di petrolio verso Canada, Stati Uniti, Inghilterra, Paesi Bassi e Giappone, dove si formarono lunghe code alla pompa di benzina. I drastici aumenti del barile fecero schizzare il prezzo del petrolio, che in molti casi aumentò più del triplo. I paesi dell’Europa occidentale dovettero varare drammatiche misure di austerity economica mentre, sotto fortissime pressioni dei produttori di petrolio arabi, quasi tutta l’Africa interrompeva i rapporti con Israele. Fu allora che prese quota la tendenza dell’Europa occidentale a schierarsi acriticamente a favore dei palestinesi: non per un improvviso sussulto morale, ma per la minaccia di un taglio dell’approvvigionamento di petrolio.

Per Israele non c’era una minaccia strategica più grande del petrolio arabo, che di fatto lo stava trasformando in uno stato paria. L’atmosfera in Israele e in tutto il mondo ebraico era cupa. Elie Wiesel scrisse un editoriale sul New York Times in cui esortava gli ebrei a non cedere alla disperazione. Cynthia Ozick scrisse un saggio per Esquire intitolato “Tutto il mondo vuole la morte degli ebrei”. Quella paura mi sembrava allora del tutto ragionevole. Il boicottaggio petrolifero arabo toccò il suo culmine il 10 novembre 1975, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si piegò ad approvare una risoluzione che tacciava il sionismo come una forma di razzismo.

3 novembre 1973, i ministri del petrolio di Kuwait, Arabia Saudita, Iraq, Iran, Abu Dhabi e Qatar riuniti in Kuwait per discutere i prezzi del petrolio

Oggi Israele firma un trattato di pace con gli Emirati Arabi Uniti, uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio, e con il Bahrain, altro paese arabo ricco di petrolio. E l’accordo gode della tacita benedizione dall’Arabia Saudita. Il processo di normalizzazione e pace con Israele è guidato dagli stessi attori che un tempo capeggiavano la campagna contro la sua legittimità ad esistere.

Per ironia della sorte, proprio mentre gran parte del mondo arabo scende a patti con la presenza dello stato nazionale ebraico in Medio Oriente, in Occidente sta accadendo il processo opposto. Il boicottaggio arabo contro Israele è finito, il movimento BDS (per boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele) è vivo e vegeto in Occidente. L’accordo di pace con Emirati Arabi Uniti e Bahrein ci rassicura che prevarremo anche contro il BDS. Ci vorrà magari un’altra generazione ma, come dicono gli israeliani, gam zeh ya’avor anche questa passerà.

La firma dello scorso 15 settembre è il tardivo riscatto dell’accordo di pace egiziano-israeliano del 1979. Dopo la guerra dello Yom Kippur del 1973, il presidente egiziano Anwar Sadat giunse alla conclusione che Israele non sarebbe mai stato sconfitto militarmente. Dopo tutto, l’attacco dello Yom Kippur era stato il più micidiale colpo mai sferrato dal mondo arabo per distruggere Israele. Eppure, anche un attacco su due fronti, che aveva colto di sorpresa lo stato ebraico nella giornata in cui era in assoluto più vulnerabile, si era concluso con le Forze di Difesa israeliane schierate a portata di cannone dal Cairo e da Damasco.

1973-’74: l’austerity da embargo petrolifero

Gli accordi di pace di oggi confermano la lezione centrale del trattato di pace israelo-egiziano: il prerequisito indispensabile per la pace in Medio Oriente è che Israele sia una forza imbattibile. È la forza di Israele che sprona questa pace. Nella sua paura dell’Iran e della Turchia, due paesi che mirano a dominare il Medio Oriente, il mondo arabo si rivolge a Israele. In altre parole: i paesi arabo-musulmani si rivolgono allo stato ebraico per un’alleanza contro le ambizioni imperiali delle due potenze musulmane non-arabe della regione. La forza economica di Israele è un ulteriore incentivo: quella che vediamo formarsi è un’alleanza di paesi concentrati più sul futuro che sul passato.

Tuttavia ciò che ha reso possibile questo accordo non è solo la forza di Israele, ma anche il suo pragmatismo. La svolta è avvenuta quando il primo ministro Benjamin Netanyahu ha accettato di lasciar cadere la paventata annessione unilaterale di una parte dei territori di Cisgiordania. In altre parole: il leader della destra israeliana ha in pratica concesso a un paese arabo di dire la sua sul processo decisionale interno d’Israele. I leader dei coloni hanno denunciato questa decisione come un tradimento della sovranità israeliana. In realtà non è che una sostanziale conferma della logica di quest’epoca: la sicurezza d’Israele è rafforzata dall’interdipendenza regionale.

19 novembre 1977: il presidente egiziano Anwar Sadat (a sinistra) e il primo ministro israeliano Menachem Begin al King David Hotel di Gerusalemme

E i palestinesi? Hanno perso il loro potere di veto sulla pace, e anche questa è una buona notizia per Israele e per la stabilità della regione. Tuttavia, anche mentre perdono i loro alleati più potenti, i capi palestinesi continuano a reagire con la fallimentare politica del rifiuto e la cultura dell’odio. Solo un inequivocabile impegno da parte palestinese ad esercitare solo nel futuro stato palestinese il cosiddetto “diritto al ritorno” e a togliere di mezzo la minaccia di minare la maggioranza ebraica d’Israele potrà convincere un gran numero di israeliani a perseguire nuovamente la soluzione a due stati. I palestinesi devono scegliere tra “ritorno” e statualità. Eppure, nessun dirigente palestinese è disposto o è in grado di dire questa verità al proprio popolo. Viceversa, i capi palestinesi continuano ad aggrapparsi a vecchi schemi, come l’iniziativa saudita del 2002, che sono di fatto coperture per il cosiddetto “ritorno”.

Nondimeno, l’accordo di pace con gli stati del Golfo non esonera Israele dalla necessità di aprire ai palestinesi. Proprio in questo momento di successo, il primo ministro israeliano dovrebbe rivolgersi al popolo palestinese e rinnovare l’offerta dei precedenti leader israeliani: uno stato palestinese concretamente fattibile in cambio della fine della pretesa palestinese del “ritorno”. Oggi più che mai un leader israeliano dovrebbe fare un accorato appello ai vicini palestinesi, riconoscere le loro sofferenze e, insieme ai nuovi alleati nel mondo arabo, offrire una via d’uscita da un secolo di conflitto. E non solo per il loro bene, ma per il nostro bene come israeliani.

Probabilmente questo non accadrà oggi. La risoluzione di questo conflitto attende una nuova generazione di leader israeliani e palestinesi. Ma è possibile in futuro? Ebbene, se mezzo secolo fa qualcuno mi avesse detto che la normalizzazione con Israele sarebbe stata promossa dai paesi arabi produttori di petrolio e che la ricchezza creata dal petrolio avrebbe motivato i paesi arabi a cercare di fare causa comune con un Israele militarmente, tecnologicamente ed economicamente potente, avrei sorriso e l’avrei cortesemente liquidato come un pazzo.

(Da: Times of Israel, 15.9.20)