Il ritiro della Siria dal Libano

Senza farsi troppe illusioni, si può sperare che volga finalmente al termine il lungo ciclo storico della inutile conflittualità fra Israele e Libano.

M. Paganoni per Nes n. 5, anno 17 - maggio 2005

image_692L’ambizione siriana di dominare il Libano ha sempre dovuto fare i conti con le circostanze internazionali. Nell’ottobre 1990 Hafez Assad, sapendo di poter contare sul silenzio dell’occidente preoccupato di non rompere la coalizione anti-Saddam, diede l’ordine di sferrare l’attacco contro l’ultima parvenza di indipendenza a Beirut, presidiata dal generale cristiano Michel Aoun. Il 22 maggio 1991 il presidente libanese Elias Hrawi firmava a Damasco un Trattato di Fratellanza molto simile a quelli che vincolavano all’Urss i paesi satelliti, e il ministro delle difesa siriano Mustafa Tlas dichiarava che l’unione fra i due paesi si sarebbe realizzata “presto, al massimo nell’arco della nostra generazione” (al-Hayat, 9.05.91). E’ andata diversamente. Quindici anni dopo, il 26 aprile 2005, il ministro degli esteri siriano Farouk al-Sharaa informava il segretario generale dell’Onu Kofi Annan che le forze siriane avevano completato il ritiro dal Libano. Ora, scrive Herb Keinon (Jerusalem Post, 27.04.05), il figlio di Hafez, Bashar Assad, “passerà alla storia come il leader siriano che ha perduto il Libano, una delle carte più forti che Damasco poteva giocare nel confronto con Israele”.
“Il ritiro siriano – commenta Ha’aretz (28.04.05) – costituisce una vittoria del raro e sorprendente risveglio di opinione pubblica in un Medio Oriente che da due anni continua ad avvertire gli effetti della caduta di Saddam Hussein”. Nel mondo post 11 settembre neanche Damasco ha potuto ignorare le pressioni Usa contro il terrorismo e per la democratizzazione, né la risoluzione 1559 per il ritiro dal Libano sostenuta anche dalla Francia. Soprattutto, non ha potuto ignorare l’esplosione di indignazione popolare dopo l’assassinio, il 14 febbraio, del primo ministro libanese Rafik Hariri. E così, senza farsi troppe illusioni, si può sperare che volga finalmente al termine il lungo ciclo storico della “inutile” conflittualità fra Israele e Libano.
Fra i paesi arabi che dal 1948 si opposero violentemente alla nascita dello stato ebraico, il Libano era il più piccolo, il meno potente, il più aperto all’occidente. In una parola, il meno ostile. Creato dai francesi su un territorio con caratteristiche peculiari, ma che Damasco ha continuato a rivendicare; retto per lunghi anni da un delicato equilibrio socio-politico fra le diverse comunità (sunniti, sciiti, cristiani, drusi), fino alla fine degli anni ‘60 il Libano è stato un paese tranquillo e relativamente florido (la “Svizzera del Medio Oriente”). Tra Israele e Libano non esisteva alcun contenzioso territoriale, tanto che per vent’anni il confine fra i due paesi è rimasto il più pacifico. All’epoca in cui nella valle di Hule si viveva sotto il tiro dei cecchini siriani appostati sul Golan e sulle strade del Negev si rischiavano le imboscate dei feddayin infiltrati da Giordania e striscia di Gaza, turisti e israeliani si recavano spensieratamente a Rosh Hanikrà, dove soldati libanesi e israeliani stazionavano pigri ai lati di una semplice rete metallica.
Un idillio destinato a terminare con l’irruzione delle organizzazioni armate palestinesi dopo il “settembre nero” in Giordania (1970). I delicati equilibri di potere della piccola “repubblica dei cedri” ne risultano sconvolti. I gruppi palestinesi si impadroniscono della parte meridionale del paese, dove creano uno “stato nello stato” con scarsissimo rispetto per la popolazione locale. È da questa Fatahland che le fazioni dell’Olp preparano attentati terroristici come quello alle Olimpiadi di Monaco (1972) o alla scuola di Ma’alot (1974). Israele reagisce colpendo le basi palestinesi in territorio libanese, il governo di Beirut perde autorità, le comunità libanesi armano le rispettive milizie. La situazione si fa esplosiva finché nel 1975 il paese precipita in una guerra civile destinata a durare quindici anni.
I primi a trarne profitto sono i siriani che, col pretesto di riportare la calma, di fatto occupano due terzi del paese. Alleandosi ora con una, ora con l’altra parte, perseguono l’obiettivo di incorporare il Libano come parte di quella Grande Siria che, secondo loro, dovrebbe comprendere anche Israele e territori palestinesi. Nell’anarchia in cui versa il Libano nella seconda metà degli anni ‘70, l’Olp crea un vero e proprio esercito e moltiplica gli attacchi. Il confine con Israele si fa incandescente. Negli stessi anni in cui l’Egitto di Sadat apre la porta alla pace, per gli israeliani di Kiriat Shmonà e Metulla inizia la lunga stagione delle notti nei rifugi. Vani gli appelli di Israele al rispetto dell’armistizio in una Beirut ormai priva di governo, spaccata in due fra cristiani e musulmani, parzialmente occupata dalle truppe siriane. È sotto gli occhi dei soldati di Damasco che nell’agosto del 1976 si consuma la strage di palestinesi a Tall el Zataar.
Nel marzo 1978 le truppe israeliane penetrano per alcune decine di chilometri in Libano, giungono fino al fiume Litani e demoliscono parte delle basi terroristiche. Gerusalemme chiarisce subito la posizione che da allora avrebbe incessantemente ribadito: Israele non ha mire territoriali sul Libano. L’unica aspirazione è quella di garantire la calma al confine, mentre sul versante libanese non esiste alcuna autorità in grado di farlo. Il 19 marzo l’Onu vota la risoluzione 425 che chiede a Israele di ritirarsi e al governo libanese di ripristinare la propria “effettiva autorità” su tutto il territorio. Concetti giusti, ma totalmente avulsi dalla realtà. Il governo libanese non esiste. Quando, dopo meno di due mesi, gli israeliani si ritirano, le formazioni palestinesi riprendono il controllo della zona. Israele cerca di tenerle lontane dal confine con pattugliamenti al di là della frontiera insieme a una milizia libanese, l’Esercito del Libano Meridionale. Nasce il concetto di “fascia di sicurezza”, che accompagnerà la strategia israeliana al confine settentrionale fino all’anno 2000.
Ma l’Olp si riarma e alza ancora il tiro. Il Libano, lacerato e diviso in feudi, le offre la possibilità di tenere Israele sotto costante pressione militare. Nell’estate del 1982, dopo l’ennesimo attentato, Israele sferra un attacco in profondità, distruggendo gli arsenali dell’Olp. Anche tank e aerei siriani, nella valle libanese della Bekaa, vengono affrontati e sconfitti. In un crescendo di condanne della comunità internazionale, gli israeliani giungono a Beirut e per la prima volta entrano in una capitale araba. L’obiettivo è debellare le forze ostili e patrocinare il ripristino di un governo che firmi la pace. Un progetto troppo semplicistico e ambizioso, e la stessa popolazione israeliana si divide. Divisioni che diventano laceranti quando, a metà settembre, falangisti cristiani libanesi si abbandonano a una sanguinosa vendetta uccidendo diverse centinaia di palestinesi nei campi di Sabra e Chatila. E’ una delle tante rappresaglie che hanno insanguinato la guerra civile libanese, ma questa volta si consuma nella parte di Beirut sotto controllo israeliano e questo Israele non lo può accettare. L’opinione pubblica chiede a gran voce il ritiro delle truppe da Beirut e una commissione d’inchiesta. Nel giro di pochi giorni inizia il ritiro, che verrà completato nel 1985. Ancora una volta, però, la scelta sarà quella di mantenere il controllo su una “fascia di sicurezza” profonda 4-12 km.
Nel frattempo però lo scenario libanese è cambiato, con l’ascesa in numero e forza delle formazioni islamiste sciite. Dopo il cruento esordio con i primi attentati suicidi contro le truppe multinazionali nel 1983, i gruppi jihadisti si impongono come il nuovo protagonista della guerra contro Israele. Abbondantemente foraggiati in armi e denaro dall’Iran khomeinista, i terroristi di Hezbollah, il “partito di dio”, guadagnano il favore dei più diseredati offrendo servizi che lo stato non garantisce, e nel contempo svolgono una penetrante azione di propaganda dai toni violenti e spesso antisemiti. La Siria favorisce Hezbollah come strumento per condurre un conflitto “a bassa intensità” contro Israele. Quando Damasco riuscirà infine a imporre la “pax siriana” su un Libano ormai ridotto a protettorato, l’unica milizia cui non verrà ingiunto di deporre le armi sarà proprio Hezbollah, esplicitamente incaricata di continuare a colpire Israele. Cosa che avviene puntualmente a più riprese, senza curarsi delle conseguenze, e i libanesi iniziano a insinuare che la Siria è pronta “a combattere Israele fino all’ultimo libanese”. La conflittualità, con assurdi pretesti (le fattorie Sheba), persiste anche dopo che Israele, nel maggio 2000, si è ritirato unilateralmente dalla fascia di sicurezza, attestandosi sulla frontiera internazionale formalmente riconosciuta dall’Onu.
Cinque anni dopo è la volta del ritiro siriano. Per la verità non tutti sono convinti che il controllo sul Libano sia veramente finito. L’intelligence di Damasco è ancora ben presente nel paese, anche dentro le sue forze armate. Il ritiro sarà completato, scrive Ze’ev Schiff (Ha’aretz, 5.05.05), solo quando Hezbollah cesserà di essere una milizia armata con i razzi puntati su Israele, e quando verranno rimpatriate le guardie rivoluzionarie iraniane. Il dubbio d’Israele è come comportarsi con Hezbollah se questo continuerà ad agire come un gruppo terrorista che non prende ordini da Beirut. Visto da Gerusalemme, lo schieramento delle forze nemiche non è molto cambiato.
Tuttavia, argomenta Keinon, l’effetto forse più significativo del ritiro dal Libano sarà quello di indebolire la posizione di Assad nel confronto con Israele. Damasco ha sempre insistito che il Libano non può fare la pace con Israele a meno che non la faccia anche la Siria. I leader libanesi si sono conformati, proprio a causa della forte influenza siriana. Ora invece Damasco non può più dare per scontato questo assioma. E gli stessi Hezbollah, finora docile strumento nelle mani siriane, potrebbero essere indotti a ritagliasi un ruolo più politico.
Conclude Ha’aretz (28.04.05): “La politica di Bush, che combina forza militare, pressioni diplomatiche e presenza di truppe nei paesi attorno alla Siria, ha reso possibile la domanda esplicita di maggiore democrazia. Una domanda che non osa ancora manifestarsi all’interno della Siria, ma che ha già dato i suoi frutti in Libano. Trent’anni dopo l’invasione del vicino, oggi è chiaro che il problema di Bashar Assad non è il Libano, per quanto gli rincresca averlo perduto, nè il Golan né Israele. Il vero problema è la sua stessa sopravvivenza al potere”.

Nella foto in alto: 26 aprile 2005, un soldato siriano al confine con fra Siria e Libano